Tutti sanno ma nessuno comprende bene la solitudine compressa di un portiere. Ciascuno immagina il carico di tensioni che è costretto a vivere in quei novanta minuti dove se lui sbaglia è gol. Se sbaglia un attaccante, pazienza. Avrà un’altra occasione. E appena quell’attaccante segnerà ci si dimenticherà di quell’errore e tutti saranno pronti a osannare il goleador. Ci sono grandi portiere rimasti purtroppo negli Annales per i loro errori. Tutti ricordano l’uscita a vuoto di Walter Zenga che decretò il gol dell’Argentina che ci buttò fuori dall’occasione di disputare la finale del Mondiale in Italia.
Sono esempi che servono a comprendere – si ripete – a quali indicibili tensioni sia sottoposto il numero
uno di una squadra di football. La contraddizione consiste nel fatto che questi
non diventa mai numero uno per notorietà, successo, riconoscimento di meriti. C’è
sempre un numero dieci, o nove oppure undici a sfilare come il grande eroe,
prendersi il bene del pubblico riconoscimento e magari anche l’attenzione delle
donne.
Il numero uno salva le partite ma solo gli addetti al
mestiere se ne accorgono. La mancanza di podismo, la dinamicità contratta
perché costretta dal rettangolo della porta, inoltre, non fa altro che
aumentare a livello inesprimibile la sua tensione. La solitudine del portiere è
stata celebrata anche nella famosa poesia Umberto
Saba per cui anche nelle occasioni di festa a lui rimane solo l’amara
consolazione di dire: “anch’io son parte”. Solo parte. Mai essenza, momento
nevralgico, spunto sostanziale. Eppure suoi eventuali errori condannano la
squadra, sue prodezze danno una possibilità di giocarsela al di là dei meriti
espressi in campo.
Tutta questa prolusione serve per presentare il caso di
Emiliano Martinez. Se l’Argentina ha vinto il Mondiale lo si deve a lui. Non a
Messi, l’asso ha fatto il suo, certo. Ma i suoi gol non sono da fantascienza.
Potevano costare cari invece i due gol mandati di Lautaro Martinez, palle che un attaccante di razza insacca. L’immenso
Dybala ha segnato il rigore tirando
dritto per dritto. Nessuno potrà mai giurare se il suo è stato un grande
azzardo o un tiro sbagliato andato bene. In Argentina si festeggia e tutti sono
contenti.
Ma questa vittoria deve essere intestata proprio ad Emiliano
Martinez che ha parato i rigori della Francia o almeno con le sue tattiche
psicologiche ha indotto in errore gli avversari. Sul suo impiego c’era stato
scetticismo. C’è sempre l’esperto pronto a dire che ce n’è un altro più pronto
di quello designato. E non conta se il designato sono anni che sta aspettando
per questa grande occasione. Il portiere è merce da contrabbandare. Se viene cambiato
nessun tifoso protesterà. Chi sa di Calcio però sa che la sua tranquillità
psicologica è fondamentale. Non va contrastato, non va messo in discussione.
Deve sentire sicuro il suo ruolo tra i pali. Se diventa oggetto di chiacchiere
la sua determinazione vacilla perché sarà tutto proteso a confutare quelle,
cercherà di strafare e farà inevitabili errori.
Ce n’è abbastanza per far arrivare Emiliano Martinez molto
carico all’ottenimento del premio come miglior portiere e come vincitore del
Mondiale. L’atto prossemico in cui dice al mondo “andatevela a prendere in quel
posto”. E ancora: “attaccateve a sta ceppa” gli deve essere perdonato.
Ma lo dobbiamo anche ringraziare per averci regalato questo
sketch d’avanspettacolo davanti lo sceicco che lo guarda compassato e
ammutolito. “Roba da mondo sottosviluppato” – avrà pensato. E invece sono
sviluppati loro coi seimilacinquecento morti, approssimativamente conteggiati,
per realizzare le strutture dove giocare a pallone. Stadi che verranno smontati
e neanche resteranno come opere pubbliche.
Questo atto invece squarcia il velo dell’ipocrisia
compassata di questi eventi. Sono occasioni in cui si piange, ci si bea come ragazzini,
si urla come forsennati liberando una libido altrimenti compressa – tanto per dirla come su un bignami di
psicologismo. E così il trionfo virtuale del fallo segna un qualcosa che ci
collega alla notte dei tempi e ci tranquillizza con noi stessi perché l’umanità
emotivamente, in fondo, non è cresciuta poi di molto dalla caverna in cui è comunque
uscita.