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Abramo Lincoln
scrive il discorso di Gettysburg


Fui chiamato da un messo del Presidente. Era il 19 novembre del 1863. Doveva pronunciare l’orazione che insieme ai fondamenti etico-politici del nuovo Stato rappresentasse la carta morale della nuova America. L’occasione decisa dal presidente fu l’inaugurazione del cimitero militare di Gettysburg. La battaglia che era costata la vita a 50 mila soldati, 27 mila sudisti e 23 mila unionisti. Era una ferita ancora viva nella pelle degli americani. Lincoln voleva dimostrare, con solida litania, che nessun morto fu invano. Da una parte e dall’altra. Sarebbe stato interessante sentire il parere dei diretti interessati. Avevo precedentemente incontrato Abramo Lincoln nel settembre del 1862 per la redazione del “Proclama di Emancipazione degli Schiavi” che finalmente aveva sbloccato qualche sua titubanza che lui spiegava con motivazioni tattiche: il processo poteva avvenire solo in modo graduale. Stavolta non aveva titubanze. “La guerra – diceva - era già un prezzo troppo alto per la liberazione dalla schiavitù”. Stavolta il Presidente era molto meno colomba e assai più falco. Sentiva di stare a un passo dal trionfo e in contempo ad una conquista di emancipazione ineguagliabile per l’umanità. E voleva essere assolutamente lui a segnare questo passo. Il suo studio nel pieno caos di carte e fogli di giornale. Lui in camicia e scalzo, barba ben oltre quella misurata lunghezza che lo rendeva somigliante a un mormone. Sembrava in preda ad una qualche forma di esaltazione. Come se la guerra fosse già finita, come se sentisse che non c’era più tempo per le mezze misure. 
Presidente a chi rivolgiamo il messaggio? Al Congresso come fu per la Proclamazione? Oppure alle forze vive dell’economia? O al popolo?
“L’altra volta pensavo di esser stato chiaro, anche con lei. Non ci possono essere differenze. Sarebbe un errore grave se dopo aver abolito la schiavitù fondassimo le classi sociali attraverso moduli espressivi diversi o discorsi specificamente indirizzati.”
Presidente, non mi giudichi male. Intendevo semplicemente chiedere quale registro riteneva fosse più giusto adottare, più enfatico oppure seguire un ordine logico consequenziale molto rigoroso?
“L’ho chiamata perché da europeo mi desse delle indicazioni su questioni di filologia di pensiero, non per costruirmi gabbie, per cogliere quella o l’altra fascia sociale. Qui non siamo in Francia o in Inghilterra dove le persone si dividono in base al censo o ad aspettative dal futuro. Qui siamo in America e gli americani sono i protagonisti del Nuovo Mondo!”
Dio mio, Presidente! Non mi faccia la lezione da buon Pastore! Vuole dire che qui non ci sono classi sociali? Non ci sono ricchi e poveri? E i neri che combattono vivono nelle stesse condizioni dei loro col legionari?
“Voglio solo dirle che le classi sociali che per secoli hanno staticamente caratterizzato la civiltà europea nel Nuovo mondo non esistono nella coscienza degli americani. Qui non esistono aristocratici o privilegiati per nascita. La democrazia è il nostro mito. Ma insieme è il nostro punto di partenza, non il risultato di un processo durato millenni, come da voi. In Europa! Qui l’uomo della fattoria e l’operaio sono i protagonisti di questo nuovo mondo. Quella che voi chiamate opinione pubblica esiste anche qui, ma qui è il risultato delle opinioni di queste persone, non un condensato di ideologia generalizzata e di interessi di classe.”
Grazie della lezione, Mister President! Ora dobbiamo dare un volto a questo discorso. Parliamo dopo una battaglia, e sul luogo di questa stessa battaglia, che ha ferito tutta l’America. Credo che questo debba essere il nostro incipit. Che ne dice?
“Io invece darei inizio con l’atto di fondazione della nostra nazione, ma per dire che qui nasce la nostra nazione. Con rispetto per Gorge Washington e i Padri fondatori.”
(Hai capito l’alfiere del pensiero democratico, pluralista, egualitario? Vuole dire che lui è il vero fondatore della Patria!)
Presidente va bene questa dizione? La legga lei.
“Or sono diciassette lustri e due anni che i nostri avi costruirono, su questo continente, una nuova nazione, concepita nella Libertà, e votata al principio che tutti gli uomini sono creati uguali. Adesso noi siamo impegnati in una grande guerra civile, la quale proverà se quella nazione, o ogni altra nazione così concepita e così votata, possa a lungo perdurare.”
Sì! Credo che sia un buon inizio. Ma dopo vorrei continuare insistendo, come diceva lei, su questa grande battaglia che in sé, insisto, è stato l’atto d’inizio della nuova idea di nazione che tragicamente non può avere inizio senza che scorra sangue fraterno.
Senta questo abbozzo:
«Noi ci siamo raccolti su di un gran campo di battaglia di quella guerra. Noi siamo venuti a destinare una parte di quel campo a luogo di ultimo riposo per coloro che qui diedero la vita, perché quella nazione potesse vivere. È del tutto giusto e appropriato che noi compiamo quest’atto. Ma, in un senso più vasto, noi non possiamo inaugurare, non possiamo consacrare, non possiamo santificare questo suolo. I coraggiosi uomini, vivi e morti, che qui combatterono, lo hanno consacrato al di là del nostro piccolo potere di aggiungere o detrarre. Il mondo noterà appena, né a lungo ricorderà ciò che qui diciamo, ma mai potrà dimenticare ciò ch’essi qui fecero. Sta a noi viventi, piuttosto, il votarci qui al lavoro incompiuto, finora così nobilmente portato avanti da coloro che qui combatterono».
“Credo sia giusto così ora però la conclusione pregnante…”
Come la conclusione? Di già?
“Il popolo non ha tempo per lunghi discorsi né i tempi mentali per recepirli. Questa che abbiamo scritto finora è solo una premessa perché si dica quel che deve essere detto: Dio, Patria, Il patto di sangue tra gli americani che è qualcosa di più elevato di un contratto. E poi la libertà! Perché le nostri genti siano una sola cosa con la loro terra!”
Dopo essermi messo a scrivere provai ad abbozzare:
«Sta piuttosto a noi il votarci qui al gran compito che ci è di fronte: che da questi morti onorati ci venga un’accresciuta devozione a quella causa per la quale essi diedero, della devozione, l’ultima piena misura; che noi qui solennemente si prometta che questi morti non sono morti invano; che questa nazione, guidata da Dio, abbia una rinascita di libertà; e che l’idea di un governo di popolo, dal popolo, per il popolo, non abbia a perire dalla terra ». 
“Bene! Per me è concluso. La saluto. Ora ho altro da fare.”
Presidente, non crede però avremmo dovuto assecondare l’animus dell’americano medio che si sente solo, superbo, dominatore degli elementi della natura? Qui non c’è troppa enfasi democratica?
“Democrazia e individualismo in fondo non sono due fenomeni contraddittori. La democrazia semmai è l’unico modo di dare una regola all’individualismo diffuso che altrimenti sfocerebbe in anarchia incontrollabile.
E lo spirito della frontiera? Con questo traboccare di buoni sentimenti: la Patria, la libertà… Tutte cose belle e condivise ma sistemi di pensiero dove la soggettività non è esaltata, semmai conglobata in un insieme…
Ragazzo! Lo spirito della frontiera cancella nella coscienza del neoamericano le gerarchie sociali sostituendovi il mito democratico. Tutto questo si costituisce con una fiaccola ancora più forte, però.
L’individualismo!”
(Chi ci capisce è bravo) 

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