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11 giugno '15 - memoria contraddetta
Berlinguer, ricorrenza inattuale
Avevamo proprio bisogno del patetico film di Veltroni per commemorare un personaggio politico che ha sbagliato tutto


Fiero di esser sempre stato anti-berlingueriano, non avrei scritto questa breve memoria se la paccottiglia dei ricordi ammanniti in ogni dove non mi spingesse a dire la mia che, con immodestia, è quella di un ex ragazzo fortemente partecipe dei suoi tempi.

Secondo me Berlinguer è stato un pessimo interprete dei suoi tempi. Li ha subiti, molto più che condizionati. Avuto in eredità il più grande partito comunista in Europa, nel suo intenso decennio non riuscì ad essere né riformista né rivoluzionario.

Ma non ebbe nemmeno la capacità di affermare solennemente che quelle categorie erano superate, quindi non ebbe il coraggio di prospettare una socialdemocrazia che fosse fortemente carica dei motivi-forza che in quegli anni stavano portando il mondo in prospettive progressiste. La fine di guerra in Vietnam, il governo socialista di Salvador Allende, l'imminente fine del militarismo in Spagna, le dimissioni di De Gaulle in Francia, la Germania di Willy Brandt … 

Tutto faceva pensare a prospettive di grandi riforme anche in quell'Italia di inizio anni Settanta.

Berlinguer al primo anno di segreteria, invece, prendendo le mosse dalle riflessioni sul colpo di Stato in Cile, avanzò l'idea di un “grande compromesso storico” con la Dc. Chiunque avrebbe logicamente dedotto il contrario. Era proprio la Democrazia cristiana in Cile ad aver combattuto contro Allende. Nel colpo di Stato cileno era innegabile la mano americana, così come fortissima era la presenza della Nato in Italia. Era anche vero che il blocco sovietico voleva perpetrare stalinianamente la logica dei due fronti. L'Urss che eterodirigeva il Pci non avrebbe mai accettato una revisione riformista. Berlinguer ne ebbe chiari presagi nell'incidente automobilistico di Sofia, nel 1973, le cui circostanze non furono mai esattamente accertate.

Tutti motivi che avrebbero dovuto far riflettere sulla necessità della svolta radicale nella versione politica della realtà effettuale. Il tutto non poteva ridursi alla narrazione del compagno e all'avversario di classe se proprio il compagno era il nemico militare nazionale che non lesinava i suoi missili puntati sull'Europa.

Tutto portava a cercare negli “elementi di socialismo” il modo possibile per cambiare la società. Niente di tutto questo fu fatto.

Lo strabico sincretismo di Berlinguer prevedeva un'Italia sicuramente filo-atlantica. Considerava imprescindibile la democrazia rappresentativa ritenuta valore universale e necessario. Ma in contempo teneva il doppio filo, economico e ideologico, con il socialismo reale dell'Unione sovietica. Proprio la stessa Unione Sovietica che venti anni prima era stata fieramente stalinista e mai aveva messo in discussione quel sistema. (Semmai aveva fatto autocritica sui metodi). Chi nel Pci aveva messo in discussione profondamente quel mondo fu cacciato via. Erano quelli della rivista Il Manifesto.

Quando Berlinguer si decise a fare lo “strappo” dall'Unione sovietica era oramai troppo tardi. Erano iniziati gli anni Ottanta e il sovietismo era in decozione.

Tornando a quei primi anni Settanta, in una lettera a Monsignor Bettazzi Berlinguer scriveva che il partito comunista è “rivoluzionario e conservatore” dimostrando così che non era né l'uno né l'altro. Ma nemmeno aveva il coraggio di dire ciò che era.

Si diceva che aveva abbracciato la democrazia rappresentativa, ma nel dibattito politico culturale della sinistra disse che una maggioranza del 51% non sarebbe stata sufficiente. Di quali maggioranze bulgare aveva bisogno Berlinguer?

Berlinguer, nonostante il Pci si fosse fatto forte raccogliendo ogni testimonianza di antagonismo dal dopoguerra, chiamò noi ragazzi del Settantasette "diciannovisti" – cioè nuovi fascisti. Avevamo il torto di dare espressione variopinta alla contestazione. Erano gli anni degli indiani metropolitani, del Punk, del sei politico "perché una scuola che non ti forma culturalmente e non ti dà lavoro non può anche essere selettiva". Era il nostro modo di dire che quella società non ci piaceva. La cosa più importante era che quella protesta non accettava lezioni da nessuno. Tantopiù da Luciano Lama che veniva a comiziare all'Università di Roma nel pieno di una protesta in cui il movimento sindacale non c'era. Ma ancor prima noi del Movimento del Settantasette rifiutavamo le gerarchie. Rifiutavamo i partiti. Esprimevamo la soggettività in rivolta che non per forza doveva diventare soggetto collettivo, mobilitazione mediata da organizzazioni. Era la conferma di quanto avevano detto già in forme completamente diverse tra loro, Marcuse, Sartre e Foucault.

Berlinguer e i suoi scienziati della politica non avevano capito che già da allora gli schematismi del materialismo storico marxista erano griglie inutili per leggere la realtà attuale. La versione ossificata del marxismo - Marx è ben altra cosa - non poteva però essere ricusata: tutta l'impalcatura ideologica del Pci avrebbe scricchiolato fortemente. 

E non fu capito nemmeno quando Craxi lanciò la provocazione: ' perché invece di Marx non rivalutiamo Proudhon? ' 

Battute a parte, il vituperato neosegretario del Psi nel 1978 aveva detto espressamente: “leninismo e pluralismo sono termini antitetici: se prevale il primo muore il secondo”. Di tutta risposta il quindicesimo congresso del Pci celebrato nel 1979 rispose che la socialdemocrazia era colpevole perché non era riuscita a liberare le società dal capitalismo.

Questo era il Pci di quei famigerati anni Settanta dove pullulavano idee nuove: il divorzio come espressione della laicizzazione dei costumi, l'autodeterminazione della donna, l'affermazione a sinistra di un'importante espressione liberal socialista rappresentata dal partito radicale, le rivendicazioni nella società che al di là delle controversie contrattuali chiedevano un'altra qualità della vita, la cultura dell'ambiente, la riforma Basaglia per cui in Italia si chiudevano i manicomi. 

Nulla di tutto questo nacque dalle botteghe comuniste che non trovarono in Berlinguer un capo illuminato, ma un sofferto re, incapace di determinare una svolta in una transizione che rimase sospesa per tanto tempo prima di essere totalmente travolta dal nuovo monocolore Dc-Psi.

Oggi non si capisce bene cosa si dovrebbe rimpiangere di Berlinguer, se non le intuizioni che non ebbe.

E non capisco nemmeno la nostalgia, se non per le idee che non seppe raccogliere.