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03 luglio '17 - comico
In vita di Paolo Villaggio
Ebbe il merito si smascherare i miti qualificandoli


Come Beppe Grillo fu simpatizzante di Democrazia proletaria. Come Leopardi credeva nell'arte come redenzione dal male di vivere. Come Sartre vide nel partito comunista una nuova chiesa che soffocava il cristianesimo.
Tutto questo senza disattendere mai la sua funzione di comico. Paolo Villaggio ha esteso alla critica sociale la letteratura umoristica tanto da estenderne alcuni capisaldi. Le sue frasi sono diventate lessico comune. L'evidenza di quanto basse siano certe debolezze umane è diventato luogo di autoironia di tutti coloro che l'hanno amato ma non sono riusciti ad entrare in tutto e per tutto nei panni del genio. La sua attenzione costante è consistita nel distruggere ogni orpello dell'ego. Annientare ogni velo dell'essere, ogni vanità riconosciuta socialmente. Nella critica sociale fu il primo a mettere alla berlina le ipocrisie della sinistra, attenta a non tradire sé stessa - in apparenza - ma ben pronta a trasformare la propria ipocrisia nel lenzuolo dove coprire certe umane debolezze. Ma questo era l'atteggiamento che il personaggio teneva con pervicace insistenza, quasi a voler scartavetrare tutti i sepolcri imbiancati che trovava. Ed era sicuro che in questa missione esistenziale di lavoro ne avrebbe sempre trovato. E così è stato. Villaggio non ha mai smesso di sconfessarsi, di sparare forte sull'inviolabile: "Maria Teresa di Calcutta è una persona malvagia". "Sì, ho appena girato un film con Milly Carlucci. Però non me la sono fatta"... E' stato il primo caso dove la persona riusciva ad avere una forza comica dirompente ancor più della maschera inventata. IN conferenza stampa di presentazione del suo libro sul pensiero liberale volle sfondare un altro tabù: quello della morte. Predisse il giorno di cui sarebbe dipartito. Chiaramente una scemenza. Ma chiaramente l'asserzione forte oscurò la notizia della pubblicazione del libro. Si immagina la contentezza dell'editore. Villaggio non ha avuto maestri ma un esercito di epigoni ha seguito la sua scuola. Quella dell'iperbole puramente descrittiva. Quella del piano verbale che spiega ancora prima e meglio dell'immagine. Paolo Villaggio a differenza di Buster Keaton vive essenzialmente nella parola, nell'espressione detta. La macchietta funambolica serve solo a condire, a replicare il rituale del comico, a ben disporre lo spettatore e rassicurarlo. Ma dal sottosuolo della narrazione scaturisce la miseria della condizione umana. Ed è quella che fa ridere. Ma non perché lo spettatore è tranquillizzato nel vedere il personaggio assai peggio di lui. Ma perché si riconosce perfettamente nel personaggio e ne soffre. Ma non essendo mai arrivato al livello di sofferenza e prostrazione dell'attore, ne ride. E questo perché la vita gli ha serbato un destino migliore di quello raccontato dal personaggio. Ha tolto veli per mostrare un nuovo modo di essere dentro. Ha insegnato a credere nel nulla, diffidando dell'essere, senza eleggere il nulla come nuovo essere. E per questo, ridere di tutto e di tutti, riservando nel proprio angolo lo stato di grazia. Quello di chi ride a piene ganasce della finzione del mondo. Quindi forse anche del fatto che sia in sé che di per sé il mondo non esiste.