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28 marzo '19 - Etica
Premio David di Donatello
È di scena la fine di una tradizione italiana, quella del cinema che raccontava storie tali da fare Storia


Un esempio di vitalità arriva dal parterre degli aspiranti premiandi al David di Donatello nella kermesse data in televisione il 27 marzo. È Elena Sofia Ricci che, recitando la sua emozione per un premio - a sua detta - "inaspettato", lancia un peana per il cinema italiano. 

Occasione più azzeccata e insieme più fuori luogo non poteva esserci. Perché lanciare una preghiera per la vitalità del nostro cinema in un momento in cui si celebra? E d’altra parte si capisce perfettamente questa invocazione alla permanenza in vita del nostro cinema proprio perché se ne attesta la sostanziale fine.

Vincono e pare vengano apprezzate narrazioni prese di tutto punto dai fatti di cui le cronache recenti hanno trattato. Che motivo c'è per farne un film? Oggi, infatti, scarseggiano le trame elaborate dalla rappresentazione produttiva di autori, sceneggiatori, romanzieri. E quando ci sono non sono incoraggiate. C’è un approdo alla realtà vera perché anche nelle sale cinematografiche possa essere raccontata - e così non descritta secondo i canoni delle nozioni reali di cui si dispone

IL mezzo del cinema, si sa, è comunque sottoposto alla proiezione del sogno per cui un fatto vero finisce per avere i contorni dell’illusione, della visione, della lettura secondo un punto di vista, quello del regista, e non secondo i dati riportati dalla nuda cronaca. 

Ma c'è un aspetto preoccupante, secondo me, nell'ossessione di rappresentare fatti ancora sensibili alla cronaca. 

Innanzitutto c'è l'insicurezza dei produttori che ritengono una storia attinta da fatti veri e recenti più appetibile al pubblico. Ma la gravità consiste nel fatto di sovrapporre, quindi fondere il piano del racconto. La rappresentazione, l'immaginazione, la narrazione pur realistici o simbolisti sono sempre nella sfera della fabula. Al contrario è la cronaca! La realtà vera! I due piani, per metodologie espressive (comunicative), restano nettamente distinti. Nel raccontare un fatto reale - di cronaca, coi dettagli della cronaca recente, in una rappresentazione filmica - si finisce sempre per dare un piano di arte-fazione. 

Ma anche nell'ipotesi che questo piano non ci sia, nello spettatore rimane. Ciò perché è diverso il contesto e il piano comunicativo. 

Si finisce, per fare un esempio, in storture gravissime, quale rendere un divo Vallanzasca grazie al film di Placido. E ci si riesce facilmente perché la vita del famoso assassino ha contorni da leggenda, che se raccontati in un certo modo facilmente entrano nel mito. 

Storie reali che potrebbero finire come pessimo esempio per i giovani perché raccontate con l'enfasi della rappresentazione. Questa stessa operazione è stata fatta coi protagonisti della Banda della Magliana. Nella verità erano dei bulli pronti a tutto e sicuri della loro incombente morte, pronti a farsi strumentalizzare dai servizi segreti per restare in vita, che invece nel film come nel romanzo sono trattati come angeli dalla faccia sporca. Grazie a De Cataldo e al film di Michel Placido. 

Noi non sappiamo chi dobbiamo ringraziare per questa indesiderata fine della nostra narrazione cinematografica. Dobbiamo forse chiederci come mai il cinema che ha inventato Fellini e Antonioni nel mondo finisca oggi nel racconto di cronache, non di vita. 

E non ci basta la spiegazione per cui ogni grande fase nella storia conosce la sua eclissi. Ci siamo trasformati da inventori a ricettori? Ed è forse anche questo un effetto della Sindrome cinese.