ilnardi.it
04 maggio '20 - Estetica
Vietato morire. Socialmente.
Quando le inibizioni toccano il sacro e ancor più vanno al di là


Tra le limitazioni imposte in età di coronavirus c’è quella di non poter celebrare le persone perse. Ciò per due evidenti motivi. IL funerale è un momento in cui per definizione si sta vicino a coloro che sono più coinvolti nella scomparsa. E quando la vicinanza, da morale, diventa anche fisica si evidenzia come pericolo di contagio. Altro motivo di costrizione si somma con la cancellazione delle circostanze in cui le persone si muovono attenuando il senso generale di fermo totale. Ma quando il divieto attiene alle categorie della morte tocca corde che vanno, per così dire, al di là. L'inibizione a processare socialmente la dimensione della morte in vita è finalizzata a rimuovere la morte, "a far morire la morte" (Kierkegard). Come dire, se la morte non è rappresentata, non c'è, non v'è celebrazione, e allora non esiste. Si riduce ai numeri licenziati alle sei del pomeriggio dalla Protezione Civile. E, come diceva Stalin, un morto è una tragedia immane, cento morti si riducono a un dato statistico. Tutto questo per rimuovere il fatto che la morte, invece, è prepotentemente entrata nelle nostre vite. La morte è una possibilità aperta assai di più della traduzione heideggeriana del senso della vita: "possibilità immanente, apertura al mondo, essere nel tempo". Possiamo dire, allora, che il senso di morte si è surrettiziamente sostituito al senso di vita. Stavolta però il governo sociale delle vite gli ha dato una mano sospendendo l'accettazione della morte come remota – già lo era prima come necessario momento di difesa - per dirci invece che sussiste solo come entità numerale, non nella quotidianità. Solo così si comprende il senso di queste disposizioni inibitive del partecipare all'effettività di una mancanza. Eppure la morte c'è. Sempre più presente. Dietro l'angolo. Ma dobbiamo viverla esclusivamente come processo della nostra vita. E nella paura della morte accettare hegelianamente la condizione di servitù nei confronti della Signoria. Ma non è più possibile celebrarla. IL rito sociale la riporta a un problema dell'umanità, del mondo. L'interiorizzazione della morte invece ci fa accettare tutto. Ci fa vivere il problema come un dilemma solo nostro-personale. Quindi, nella normativa, il fatto è che stringendosi tra persone, abbracciandosi per conforto, si propaga meglio il virus. Ma nella vita il morto è morto. Non può propagare nessuno. Tranne che ricordarci che in questa vita si muore veramente. Non come sui numeri della Protezione Civile.