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11 ottobre '20 - Etica
Che ne è del sole dopo il tramonto?
La morte è stata diversamente interpretata. Si tratta di viverla invece!


“Si tratta di vedere se la morte sia annientamento (come oramai tutta la nostra cultura crede) oppure sia proseguire oltre il dolore che caratterizza la nostra vita”. Così il grande filosofo Emanuele Severino che ci ha lasciato nel novembre 2019 iniziava la sua riflessione sulla morte nella tradizione occidentale. Gli antichi temevano – spiega sempre Severino - che dopo il tramonto il sole potesse non sorgere più. Temevano che del sole potesse essere nulla. Il pensiero occidentale si è mosso in quel timore. Che le cose partano dal niente e ritornino nel niente. La volontà dell’uomo presuppone nella fede nel diventare altro. “IL diventar altro dalla cosa” c’è la forma originaria di violenza, di guerra. La tecnica è la forza che più di ogni altro è in grado di operare sul diventar altro delle cose. L’impossibilità di un eterno. Tutto è un diventar da nulla, nulla. Osare l’inosabile è la forza dominante di cui si è caratterizzata la nostra tradizione. La filosofia mostrando l’impossibilità a ogni eterno autorizza la tecnica a superare ogni eterno. In questo modo conforta ad osare l’inosabile. Il diventar altro mostra la mancanza di alcun limite, che è lo scopo della tecnica. Sono le ideologie che si sono sovrapposte ad essere articolazione della tecnica, non viceversa. Questo per dire che la presenza costante di questa tendenza assoluta del nostro tempo a superare sé stessi consiste nella riproposizione dello stesso pattern (schema, modella) dell’esistenza eterna, immutabile, che trascende dalle individuali persone. Fa parte dell’immodificabile spinta a vedersi non come singolare storia individuale ma facente parte di un disegno assai più ampio che coinvolge l’idea stessa di natura, di ragione, in definitiva di Dio, sia che si creda a questa entità che non si creda. Ed è questo solo l’ultimo dei modi di decostruire l’idea dell’annientamento assoluto di sé dopo il passaggio della vita. La tradizione occidentale ha anche rimosso questa stessa tendenza ponendo la morte come categoria opposta alla vita. Quando c’è la vita non c’è la morte e viceversa. Inutile in vita occuparsi di quel che non c’è. Da Socrate agli stoici fino al Wittgenstein del Tractatus quella di ridurre il fondamentale problema dell’esistenza in una logica binaria ha accompagnato il pensiero nostrano che parte dall’antica Grecia. Ha tematizzato il conflitto tra vita e morte. Nel Settimo Sigillo di Ingrid Bergman il Cavaliere vince a scacchi con la morte. Un duello inesorabile in cui si mostra come la ragione umana riesca anche ad avvincere nella coscienza esistenziale la necessità della sua finitezza. Tutto questo però non riesce a produrre di evitarla. IL Cavaliere vincente interpretato da Max Von Sidow deve comunque accettare di morire. Può salvare l’ironia? Woody Allen in Amore e Guerra si esercita in una parodia di Guerra e Pace di Tolstoj e nel finale in cui la Morte danza coi suoi coscritti non può far a meno di danzare sulle musiche di Prokofiev quasi ad esser coinvolta nelle fantasie tutte umane. “La morte! Forse c’è qualcosa di peggiore della morte. Avete mai passato una serata con un assicuratore?” La battuta serve a dire che il peggiore stato consiste nel tentativo di propiziare condizioni ottimali per uscire in vita dalla morte. Ed è nel costante percepire momenti di assenza di vita in vita che il senso di morte arriva con grande approssimazione. Tanto che nel verso di Giuseppe Ungaretti – “la morte si sconta vivendo” (in Sono una Creatura) – questo senso alieno di una condizione che nella logica stoica non fa parte della vita appare invece tutto il contrario. La morte si presenta costantemente in vita ed è questo il suo momento necessario perché ci obbliga a vivere, a non rinunciare, a non ritenere la condizione diversa dalla vita preferibile. Proprio come quel soldato in trincea raccontato sempre da Ungaretti che accanto al cadavere del compagno scrive e dice a sé stesso: “non sono mai stato così attaccato alla vita” (in Veglia). Ed è in questa visione che ‘il due’ segnato dalla netta separatezza tra vita e morte, descritto sopra, si ritrova invece come coinvolgente di una dimensione rispetto l’altra. Noi ci facciamo rappresentazione in vita della morte. La conosciamo, la percepiamo, anche attraverso quella nude pietre di cui parla il Poeta che nell’esprimere la loro grandezza eterna rimandano tutta la loro ruvida differenza dalla vita. E non si tratta qui della rappresentazione della morte che facciamo in vita attraverso i funerali o i cimiteri. Ma proprio dell’intima immanenza della morte come costante compagna. “ Come questa pietra / del S. Michele / così fredda / così dura / così prosciugata / così refrattaria / così totalmente disanimata / Come questa pietra / è il mio pianto / che non si vede …“ (in Sono una Creatura). L’inorganico appare la rappresentazione in vita della non vita. E non in fondo importante il non poterci far niente. La scommessa per il pensiero della tecnica che caratterizza l’Occidente è non poterla comprendere fino in fondo.