Il tema sarà centrale e diverrà sempre più gravido di interpretazioni. Hanno cercato di parlarne due studiosi di diritto del lavoro. Sono Antonio Aloisi, Valerio De Stefano. (Il tuo capo è un algoritmo. Contro il lavoro disumano, di Antonio Aloisi e Valerio De Stefano ed. Laterza, 2020). La questione si presenta sia che si tratti di automazione e smart working, sia che ci si trovi governati da un software per gestire una paninoteca.
Il razionalismo affidato alla computazione delle macchine ha
totalmente assorbito le facoltà di giudizio e ciò ha anche un effetto
liberatorio. Nessuno potrà mai dire “il capo ce l’ha con me”. Oppure potrà
evocare generiche “iniquità nella gestione di tempi e mansioni”.
Il contrappasso però si pone in modo ancor più opprimente.
IL paradigma produttivo, la stessa produttività affidata a un programma che
deve dettare i livelli di efficienza di un comparto, quindi dei singoli in
questo ambito, produce (questa volta sì)
un livello di alienazione ben diverso da quello analizzato da Marx per
l’operaio dell’Ottocento nei meccanismi di produzione.
Ma la novità in questa nuova categoria di alienazione è che
viene a mancare il soggetto referente al quale porre le istanze di superamento
di questo stato di cose. Quel che si cancella è anche l’illusione del
superamento ed è peggiore di qualsiasi volontà opprimente determinata da un
potere. Il determinarsi delle cose è la stessa ratio a determinarlo tanto da
scongiurare ogni possibilità che la stessa ratio possa concorrere in un momento
di liberazione.
Ci sono, in più, professioni autenticamente spazzate via
dalla tecnologia. Altre però che si pensava avrebbero fatto quella fine ma
invece sono ancora in piedi. Nulla è deciso nel percorso inesorabile della
sempre maggiore acquisizione di spazi da parte dell’imperio tecnologico.
Ora che ci si prospetta la gig economy come paradigma
produttivo, tale da scalzare ogni dialettica sui modelli, la prospettiva che si
apre consiste nella cancellazione di ogni possibilità di sindacalizzazione.
E allora un ruolo, ancora residuale ma forse ancora
sussistente, sta in mano alle capacità politico-direzionali di creare dei
contraltari in termini di protezioni e garanzie per chi opera nei meccanismi
produttivi. Prima di decidere se una logica di questo tipo sia di sinistra o di
destra, l’evoluzione tecnologia e lo sposare la convenienza economica rischia
di fare il lavoro completo traducendo gli stessi decisori in un altro
algoritmo.
Sono questioni che, similmente alla tematica di cui
trattano, non offrono spazi a visioni di alternative pragmatiche che non siano
nei termini di romantiche fughe. Ed è proprio in tal senso che si rivaluta
l’insegnamento di una grande maestro della nostra letteratura rivalutato
recentemente anche come filosofo. È Giacomo Leopardi che prospetta proprio
nell’illusione offerta dalla sospensione poetica l’unica risposta possibile al
male dell’esistenza determinata dalla sua fine. Perché come scriveva Emanuele
Severino: la verità risponde al Nulla.
Leopardi darebbe così una risposta all’egida assoluta dell’algoritmo
che è foriero di angoscia per l’incapacità di interagire in alcun modo con le
decisioni sovrane prese altrove, in uno spazio non essente. Ma il poeta di
Recanati capì che non è la conoscenza vera la linea della salvazione. “Ciò che
salva non è la verità, bensì l’illusione: la verità non vede l’Eterno ma il
nulla” (Emanuele Severino, Il nulla e la poesia, Rizzoli, p. 151). Che sia però
sempre l’illusione a percepire questa nuova forma di alienazione?