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13 luglio '23 - Estetica
Eupalla bye bye!
La dea protettrice del bel gioco non abita più qui, bensì forse in Arabia


La specificità del calcio è sempre stata quella per cui, anche in fase di inattività, faceva sognare e discutere i veri appassionati. Perché il calcio è un gioco speculativo. Decisivo quel che succede in campo, le res gestae dei campioni. Ma a dare valenza alla sua idea è sempre stata più la sua possibilità che la sua realtà. E infatti in estate le discussioni si avvicendavano sui giocatori in predicato di arrivare, sulle squadre che si rafforzavano. Ciascuna nel suo ambito e per le sue ambizioni prometteva il massimo ai propri tifosi.

In pochi anni tutto è cambiato. Difficile stabilire quando è intervenuto questo mutamento. Secondo la profezia di Gianni Brera l’eccessiva commercializzazione arrivò già con gli sponsor sulle maglie che a lungo avrebbero trasformato nome e tradizione della squadra in cui campeggiavano. Un socio ingombrante sarebbe entrato nelle società a decidere il bene di un gruppo, deciso molto spesso più sulla valenza commerciale del brand da trasmettere che per i valori espressi in campo.

Siamo arrivati alla situazione in cui diverse squadre possono addirittura fare a meno di vestire lo sponsor. Ma questo è derivato dal fatto che si è intensificato ancora più lo stuolo di affaristi, soci e finanziatori a cui si deve dar conto.

Ed il conto guarda sempre alla ragioneria e non alla partita doppia tra gol fatti e subiti.

Tutto questo ha determinato la fine del calcio di rango in questo paese. Dall’essere teatro espressivo dei più grandi campioni, negli anni Ottanta, si è arrivati ad essere sede di apprendistato per i talenti in erba. Quando danno conferma delle loro eccezionali capacità vengono rispediti in paesi e squadre che contano. Del resto l’economia italiana tenuta in piedi da un’imprenditoria per lo più familistica non poteva tenere botta a lungo.

Grandi gruppi comprano, creano grandi team, preferiscono sedi meno inquinate dal politicantismo. Sì, perché la giusta fetta di responsabilità deve prendersela anche la classe di governo del paese che in ciascuna delle alternanze non è riuscita a dare formule semplificatorie per la realizzazione di nuovi stadi. Non è stata svincolata la questione dei diritti televisivi. Questo significa mancanza di motivazioni economiche, per gli imprenditori di questo spettacolo. Alla richiesta di esborso richiesto per tenere alto il livello competitivo non corrisponde una garanzia di redditività dell'investimento.

In questa situazione perdurata da venti anni è chiaro che chi ha i soldi ha vinto su tutti i tavoli. Il mondiale giocato in Arabia è un segnale netto e chiaro che però la media dei tifosi non ha capito. Ciascuno ha seguito buono buono il trend, nessuno ha discusso il criterio di dover interrompere un campionato con evidenti squilibri, nessuno ha protestato sui motivi perché un paese senza tradizione né organizzazione potesse dare vita a un mondiale per la cui costruzione di stadi non si contano le vittime. (L’umanitarismo dei ben pensanti riguarda solo i fatti nostrani, quando succede altrove viene cancellato).

Tutti elementi che porteranno ad avere uno spettacolo sempre più dimesso, giocatori sempre più mediocri, ma lo spettatore medio non se ne accorgerà perché la mediocrità sarà la media. L’eccellenza non farà più parte delle nostre partite spalmate lungo tutto il fine settimana.

Gli elementi in cui consisteva la sacralità di un evento seguivano i tempi di una liturgia per la quale il laicismo del terzo millennio pensava di soprassedere facilmente. E invece l’attesa, l’appuntamento, la fascinazione del giocatore come protagonista assoluto di un evento che si ripete ogni domenica a quell’ora, in luoghi deputati, forniva buona parte della fascinazione oggi scomparsa.

Il corso delle cose seguirà inevitabilmente. I tifosi non se ne accorgeranno e continueranno ad accapigliarsi tra loro. Ma non è sempre così. Diego Abatantuono sul quotidiano IL Foglio dice di dimettersi da tifoso del Milan, Matteo Renzi, pur cliente conosciuto dei paesi arabi, lamenta su Il Riformista questo decadimento verso il basso di una nostra tradizione. (Ed anche io come incallito interista non mi sento bene).

Ma fin quando continueranno ad esser pagati gli abbonamenti alle televisioni e agli stadi nessuno potrà dire che qualcosa è cambiato.