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31 agosto '23 - Storia
L’orrore
A sessanta anni esatti dalla pubblicazione de La Banalità del Male, torna il quesito. perché se il male è così universalmente rifiutato continua ad esser normalmente perpetrato?


Questi giorni i notiziari bombardano costantemente con le notizie di violenze nei confronti di donne. Si riprende la notizia del femminicidio di Giulia Tramontano, la donna in cinta di sette mesi, accoltellata, ma precedentemente in predicato di essere assassinata col veleno. Insieme, tante altre notizie ferali di violenza fisica, come di procurata morte.

Non si capisce bene la ragione dell’orrore all’ascolto realistico di narrazioni di questo tipo a cui si antepone una certa attrattiva per i racconti fantasy di altre storie immaginarie. Comprensibile il fastidio che se ne ritrae riconosciuto come necessario e universale. Incomprensibile la mancanza dello stesso sentimento nelle mani e nelle azioni di chi agisce in modo criminale.

Notoriamente l’argomento è stato trattato da Hannah Arendt nel suo famoso libro – La banalità del male – dove riporta i dati processuali di chi si fece autore di stermini di massa e individuali durante gli anni del terrore nazista. In ciascuna delle deposizioni degli imputati ci si giustifica col fatto che si eseguivano degli ordini, come se l’esecutore avesse una capacità di giudicare quanto stesse facendo pari allo zero.

A ben guardare però, leggendo Hannah Arendt, la considerazione che se ne trae è diversa. "Il male" appare come una proiezione giusta e salutare che affiora a posteriori. Pare non esistere nel determinarsi della storia stessa. E questo vale sia che la parola "storia" sia scritta con la minuscola o con la maiuscola. Il "male" si configura come processo autocoscienza della ragione ma non possiamo sperare che costituisca un argine al suo stesso perpetuarsi. Semplicemente perché non c'è come categoria nel momento in cui vengono a determinarsi i fatti messi ad esame. La sua banalità quindi consiste nel suo farsi architrave della narrazione che però indica il non esserci nella dinamica descritta. I fatti di cronaca di cui leggiamo in questi giorni confermano questa assenza nell'estrinsecarsi dei fenomeni ma anche questa immane presenza nell'essere delineata la fenomenologia. Esempio: come può il compagno di una donna in cinta ordire la sua eliminazione fisica col veleno e non riuscendoci perseguire lo stesso fine accoltellandola? È pazzesco. Anche lì è stata totalmente sollevata da qualsiasi categoria etica la condotta che ha ispirato l'assassino. Così altri episodi.

La connessione tra i fatti del nazismo e i fatti efferati di cronaca nera sta nella presenza quasi costante di un fine che, mentre nel primo caso, appare come un fine supremo, liberatorio dell’umanità (e questo vale anche per le purghe staliniane come per qualsiasi omicidio politico), nel secondo appare liberatorio di chi opera in modo criminale. In entrambe i casi c’è un fine.

Con la finalità, appare all’omicida, superare la sfera etica dell’azione. Ed è una condizione che sussiste solo nell’atto non nella sua considerazione storica e coscienziale. Molto spesso l’omicida prende coscienza di quanto ha fatto comprendendone la gravità abnorme.

E allora la domanda si sposta: quand’è che il fine in atto diventa il solo motore determinante di quel che si fa? Perché in alcuni si scioglie il vincolo etico davanti alla perpetrazione dell’atto criminale? Si vorrebbe rispondere che tutto dipenda dalla mancanza di formazione ma l’esperienza porta a guardare a una miriade di esempi in cui persone perfettamente formate non hanno avuto molte remore.

La ragione pare albergare tutta nei coinvolgimenti emotivi e neuronali per cui si muovono alcune sinapsi oppure si bloccano. Ma l’aberrazione del mondo della tecnica consiste nell’attesa di una ricerca e di uno studioso di turno che verrà a spiegarcelo. E sulle contromisure troveremmo solo l’inizio di altri mali.