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19 novembre '23 - Estetica
Brain Salad Surgery
Compie oggi cinquant'anni e ancora tiene, anzi è avanti


Emerson Lake & Palmer è l’unico dei grandi gruppi del rock ad aver mancato l’appuntamento col “disco perfetto”. Si chiama “disco perfetto” l’opera messa su vinile che non presenta alcuna pausa creativa, dove non c’è una nota che sarebbe potuta essere diversa, dove non c’è un brano più fiacco. Nel disco perfetto tutto suona ancora a distanza di anni. L’opera si pone alle generazioni future come esemplificazione dell’alto valore espressivo a cui è arrivata quella formazione musicale o quell’artista singolo.

Emerson Lake & Palmer non potevano seguire questo trend di stilizzazione creativa ottimale perché il loro approccio era sempre lanciato per quel che ancora non era e doveva essere suonato per essere. Con pieno rispetto degli altri gruppi che avevano trovato un Sound o uno stilema musicale al quale riferirsi per continuare la loro marcia creativa, i tre viaggiavano tra improvvisazioni, ritorno al melodico spinto, elettronica ma ad uso sempre della classica scala dodecafonica, tendenza al sinfonico, fughe nel mondo di improvvisazione che li aveva anteceduti e che i più azzardati critici cominciavano a definire Jazz-rock, fino a motivi scanzonati scritti e suonati per il solo gusto di divertire. Tutto questo erano Emerson Lake & Palmer. Era chiaro che in questa coesistenza di momenti così diversi tra loro qualcosa sfugga anche a questa non-definizione.

In tal senso la grandezza e anche il limite di Brain Salad Surgery di cui oggi, 19 novembre, si celebra il cinquantesimo anniversario.

Il disco apre con dei brani oggi, a dir poco, inattuali. Jerusalem è il rifacimento di una canzone da chiesa che i tre ci avrebbero potuto risparmiare. Toccata la versione di una sinfonia tradotta al sintetizzatore, basso e percussioni che esprime il sentimento irrequieto per l’incapacità di trarre qualcosa di veramente nuovo e insieme la volontà di comporlo. Benny the Boucer, un motivetto da saloon che ci avrebbero potuto risparmiare. (Si salva qui l’improvvisazione al pianoforte che faceva presagire Honky Tonk Train Blue di cinque anni dopo, un’altra era geologica). Immancabile l’appuntamento con la melodia arpeggiata dalla chitarra di Lake a cui sta da sottofondo un sintetizzatore irritante che si giustifica solo nel trovare coerenza con l’impiego di suoni utilizzati nel resto del disco.

Ma dopo arriva la bomba. La suite divisa in tre parti. Karn Evil 9. L’inizio all’organo, l’arrivo di basso e batteria, la voce, la melodia che sembra fuggevole ma si ripete costantemente intermezzata da assoli al sintetizzatore o all’organo che portano avanti il brano senza mai cadere l’ispirazione di un attimo. La seconda impressione è sostanzialmente un lungo assolo al pianoforte che ha bisogno di essere intermezzato da un altro assolo ai timpani e poi far riprendere il sintetizzatore che in questo brano era rimasto quieto. Tutto esplode e viene ripreso nella Terza impressione dove la voce e melodia di Lake assumono un tono trionfalistico. Seguono continue improvvisazioni e riprese canore fino al grande finale di virtuosismo al sintetizzatore.

Sbagliò, al tempo, chi scrisse che in questo disco Emerson aveva tolto lo scettro del potere a Lake. Diversamente, in questo disco i tre sono finalmente gruppo. Non debbono associarsi alle partiture scritte da Emerson o Lake né dare semplicemente soddisfazione alle smanie percussive del giovane Palmer. I tre suonano partiture che vanno per tutt’è tre. Anche se i limiti delle primogeniture dei brani, almeno all’inizio, si percepiscono chiaramente.

Ma le tre Impressioni sono la dimostrazione che un rock sinfonico era possibile. Ed era possibile rimanendo rock. Senza le pompose acrobazie vocali e all’organo di Wakeman con gli Yes. Senza dover portare orchestre o simil tali in contesti assolutamente inadeguati come altri colleghi avrebbero fatto.

Sulla copertina anche una rivoluzione in vitro. Si è usciti dalla dittatura silente di Hypgnosis per dare incarico a un artista vero. Ci si astiene dal voler entrare nel merito della rappresentazione perché inutilmente oggetto di letteratura più attinente al gossip che all’Estetica.

Il disco resta. Quel che resta è che le generazioni in divenire potranno ancora apprezzarlo.