Chi ha più di cinquant’anni ed ha avuto liceali esperienze di impegno politico il clima di conflitto lo ha vissuto nelle manifestazioni del Settantasette. E forse da allora che ha fatto il pieno di certe scene ed è grato al destino di essere reduce.
D’altra parte ho sempre detestato gli appassionati di guerra. Quelli che amavano i film di guerra, quelli che leggevano fumetti di guerra. A fine anni Sessanta, inizio anni Settanta uscivano in edicola dei fumetti che si chiamavano Guerra d’eroi. Erano impossibili da leggere, disegni approssimativi, storie di disperazione e di gloria. Eppure c’erano amici che li leggevano. Ed erano quelli dal comportamento più mite.
La guerra per me voleva dire proiettili, sofferenza, morte senza amore, deprivazioni di ogni tipo il cui solo pensiero mi appariva un prologo straziante della realtà. Non capivo come gli altri non provassero le stesse sensazioni.
Una riflessione, la mia, ben diversa da quella sulla necessità della guerra, sulle ragioni storico-critiche per cui in alcuni contesti bisogna armarsi e partire. Riflessioni che tornarono utili quando il governo di Centrosinistra di Massimo D’Alema partecipò ai bombardamenti Nato in Serbia nella primavera del ‘99.
Avevo trentotto anni. Tutto interno alla scommessa riformista di quegli anni, in altri tempi non avrei avuto altra risposta interiore che partire per la liberazione di un popolo. Non partii. Nessuno mi venne a cercare. I sistemi di reclutamento erano cambiati. Potevo farmi alfiere di questa grande stagione riformista senza rischiare un graffio.
Ed è lì che mi sentii molto simile a quegli amici d’infanzia che citavano col nozionismo pervicace di quei teneri anni le imprese tedesche, piuttosto che americane o inglesi, dileggiando la nostra proverbiale codardia.
Ebbene, con lo stesso spirito di militanza capii che quella codardia doveva essere mia. Dovevo proclamare la mia soggettività in rivolta contro l’uso delle armi perché questa stessa soggettività sarebbe stata incapace a farne uno strumento di necessaria morte del nemico. Ero contrario ai sostenitori di quella guerra per dovere – come alla guerra in Iraq (con la “q” non con la “k” come si scriveva ovunque in quei primi anni Novanta).
In sostanza, chi difende la guerra come metodo deve esser pronto a fare la guerra. Così come chi difende una politica economica di rigore deve esser pronto a pagare più tasse pagando fino all’ultimo centesimo.
Ma la diffidenza verso i propugnatori del conflitto arriva anche ai loro temerari narratori. Non ho avuto mai alcuna tenerezza nei confronti di coloro che osano in scenari di guerra, come se fare interviste sul fronte sia come un sondaggio sui consumi al supermercato. Il ruolo di chi descrive alcuni fenomeni si deve preservare dal protagonismo. Quando il cronista è un attore del conflitto deve farsi carico delle estreme conseguenze. In questo scenario l’abilità consiste nel volare alto avendo sempre cura di conservare la propria testa sul collo.
Non si intende fare alcuna battuta macabra. Qui si allude alla difficoltà di mantenere una valutazione equilibrata su quel che avviene.
Guadagnarsi la postazione dello spettatore avendo da tempo rinunciato a quella del protagonista. Ed allora quei piccoli amici che leggevano fumetti e guardavano film avevano ragione.
Pubblicato su www.wpolitix.com il 10 settembre 2014
http://www.xpolitix.com/2014/09/10/e-la-guerra-bellezza/