06 ottobre '15 -
storieNota dispersa del vecchio taccuinoLa morte centenaria di Pietro Ingrao circostanza per ricordare le occasioni perse del nostro tempoQuando ero un giovane comunista, irriverente e insofferente verso il Pci, lo consideravo un "servo di partito". Non mosse un dito per solidarizzare nei confronti di chi diceva che l'esperienza del socialismo reale in Unione sovietica si era trasformata in occupazione imperialistica e reazionaria della metà del mondo. Né si sognò di dirlo lui stesso. O meglio, lo disse ma a tempo scaduto.
Che quelle esperienze di socialismo non potevano funzionare, che c'era qualcosa nel meccanismo di profondamente sbagliato, che il capitalismo non poteva applicarsi allo stato, che il capitalismo di stato fosse la morte di una società non lo credevo solo io. Era un'idea radicata in molti di noi. E la storia almeno in questo ci ha dato ragione.
Ricordo però nel 1989, dodici anni dopo, un'assemblea al Farnese. Ritenevamo puro trasformismo il cambiamento di nome al partito imposto da Occhetto. Anche un partito riformista non nasce con un lancio a sensazione come fosse una saponetta.
Eravamo lì, ciascuno a fare il bel discorso sul diritto ad essere in una società diversa, sul dare dignità a chi soffre, sul fatto che le più grandi responsabilità di quel Pci era di esser stato poco comunista e sul fatto che la lotta di classe come strategia era stata superata per la salvaguardia di qualche posizione ...
Concludeva Pietro Ingrao.
Ebbene, iniziò a dare l'agenda delle cose da fare, se veramente volevamo farle, per i giorni successivi: c'era un'assemblea con dei lavoratori in sciopero sulla Salaria, c'era il sostegno al diritto alla casa dando manforte alcuni occupanti a Tor marancia, una manifestazione di famiglie per l'edilizia scolastica ... Giorno dopo giorno usciva l'agenda del rivoluzionario. Di quello che avremmo voluto essere noi e non eravamo più. Ci erano rimaste le parole e alcuni scampoli di lezioni apprese dalla lettura di Marx.
E non ho mai capito se quel discorso era per dirci che i rivoluzionari di professione non c'erano più oppure per insegnarci che l'azione di chi voleva una società diversa non partiva da parole in assemblea ma dall'impegno in reali situazioni di lotta.
Lo incontrai altre due volte in due mostre, Munch e Kandinsky. Di certo non ebbi il coraggio di chiedergli se mi toglieva quel dubbio. Ma capivo che era il dubbio a rimanere in lui come suo tratto distintivo.
Credo che la storia lo ricorderà come uomo del dubbio. Quella maledetta sospensione che non ci consente di vivere appieno senza operare scelte a volte dolorose.