Anche per la storia può valere il motto: ciò che non si può dimostrare nei documenti e nelle testimonianze si deve raccontare, rappresentare, esprimere.
IL Nerone messo in scena da Edoardo Sylos Labini racconta una fabula diversa dalla narrazione tramandata nei documenti dei suoi tempi. L'imperatore sale sicuramente al trono grazie alle congiure di Agrippina, ma nel momento in cui è nel ruolo di massima gerarchia dell'esercito – imperator - cerca di gestire il suo potere dandogli funzioni anomale. Vuole essere amato dal popolo, accoglie le accuse di corruzione e ne promuove le indagini, si pone come monarca assoluto nel tentativo di acquisire il potere pieno a dispetto del Senato. Ascolta Seneca, lo ammira, ma come la Medea di Ovidio: “video meliora proboque deteriora sequor” - “vedo le cose migliori e le approvo ma faccio le peggiori”.
Il Nerone rappresentato da Sylos Labini e attinto da un saggio di Massimo Fini (Duemila anni di calunnie, ed. Marsilio) non pretende di dare una raffigurazione controversa del personaggio storico.
Il Nerone di scena al Quirino dal 19 al 31 gennaio vuole percorrere tutte le sfaccettature della tradizione e della lettura controversa della storia. Del resto Nerone è l'unica figura tramandata ad aver superato la sua stessa storicità per entrare nell'iconografia popolare: Nerone è un motivo ricorrente di aneddotica e di precettistica nella cultura popolare romana. Famosa la piece comica di Petrolini riproposta in questa rappresentazione.
In sostanza il tentativo non è di dare una narrazione controversa, come avvenne col Caligola di Camus dove l'imperatore che impazzisce è invece un aristocratico vero che ha orrore delle meschinità della borghesia ed esprime il suo disprezzo nominando console il proprio cavallo ritenendolo più fedele ed affidabile di qualsiasi titolato.
Sylos Labini invece gioca con ciascuna delle iconografie tipiche di Nerone. Anche quelle che ne riproducono la dimensione più corrotta. Mentre nella prima scena appare come un leader liberale che vuole togliere le tasse per far avanzare il libero scambio e diffondere la ricchezza, un riformatore non un riformista, nel finale sprofonda nell'utopia dell'arte come potenziale rivoluzionario. Somiglia più al Nerone interpretato da Alberto Sordi per la regia di Steno che vuole sostituire attori, cantanti e musici in luogo degli eserciti. Nel frattempo sarà passato sopra i cadaveri della moglie Poppea, della madre Agrippina, del maestro Seneca. Ma il destino è inesorabile e segue il percorso di ciascun uomo di potere: la solitudine. Esser soli è peggio che morire e non sarà il ricordo nei secoli a dargli alcun conforto.