Nei momenti problematici gli italiani si evidenziano per il fatto di non avere alcun dubbio. Si sta da una parte o dall’altra. Eppure di questioni controverse ce ne dovrebbero essere. Ma il curioso è che la divisione non attiene agli schieramenti bensì ai ripensamenti. La sinistra del Pd ha votato la riforma sei volte. Eppure adesso ha posto come la madre di tutte le battaglie la non conferma al referendum. Ma anche la parte ancora legata a Berlusconi ha concorso nell’ispirare questa riforma. Eppure sfila tra gli avversari. Senza troppa convinzione, da come appare.
E allora da dove arriva il conflitto? Nei Cinque stelle è evidente. Nel polemismo che fonda la loro ragion d’essere. Un atteggiamento conciliatorio, possibilista, non sarebbe compreso dal loro elettorato. Nella sinistra del Pd la vittoria del "Sì" segnerebbe la conferma di Matteo Renzi a cui si aprirebbe un viatico di alcuni anni alla guida del paese e del partito. (Come se le ragioni di una leadership debbano esser legate necessariamente alle vittorie in campo – come un allenatore di calcio – non alle idee progressiste e riformiste). Berlusconi si trova nel caos tattico. Ha esplicitamente detto che Renzi è l’unico leader che c’è in Italia. Ha detto anche che Renzi gli piace. Però lo avversa. Triste ammettere che il proprio tempo in politica è definitivamente passato. Fratelli d’Italia come Lega debbono mostrare i denti e non possono sostenere una riforma dell’altra parte politica.
Ma arriviamo al merito. Questa riforma da approvare affronta finalmente questioni non risolte da trent’anni. Cancella il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (Cnel) che oggi non ha alcun senso. Ridimensiona la riforma del Titolo Quinto che ha mostrato di essere un colabrodo di risorse. Ridimensiona fortemente il Senato riducendone i componenti, ponendoli come rappresentanti degli enti regione e dei più importanti Comuni. Lavorando su questa prospettiva il Senato potrebbe sostituire la Conferenza Stato-Regioni ma anche la Città Metropolitana. (Anche i costituenti avevano pensato il Senato come camera delle Regioni. Un progetto che non riuscì ad avere seguito). Sempre nella riforma costituzionale da approvare al referendum si rivede il parametro per l’accettazione delle iniziative popolari di riforma, cancellata l’espressione “Provincia” dalla Costituzione, fine del bicameralismo paritario, introdotti i referendum propositivi e d’indirizzo, tetto di stipendi a Presidente e consiglieri regionali, abolizione per i rimborsi e trasferimenti ai gruppi politici regionali, stabilito il principio di trasparenza dell’amministrazione.
Ma il merito è totalmente bypassato nel dibattito. Ha un senso avvenga questo. Sebbene un po’cervellotica la revisione del dettato costituzionale è indubitabile che rappresenti un grande passo in avanti mosso da una specifica parte della classe politica che nel suo intero, come categoria umana, per trenta anni si è fatta propagatrice di questa necessità senza mai realizzarla. Quindi non sarebbe una vittoria politica, bensì la vittoria di uno schieramento. E ciò irrita chi di quello schieramento non fa parte.
Ora la riforma è fatta ma le incompatibilità escono di nuovo. E non si comprende se non attraverso la spiegazione del risentimento personale e l’invidia per l’altrui successo.
Eppure l’elettorato di destra ha ragioni per votare questa riforma. La struttura statale appare maggiormente centrata sulla figura del premier senza per questo esorbitare nei poteri che non cambiano. Lo Stato, in genere, riesce a recuperare un’idea di sé più forte per la capacità di autodeterminarsi e non vedersi costretta ad un’agenda di decisioni determinate dall’Unione europea o da diverse contingenze del momento.
L’elettorato di sinistra avrebbe ben ragione di votare compatto. Il precedente tentativo fallito da Massimo D’Alema naufragò per il tradimento finale di Silvio Berlusconi. Ora potrebbero dire che solo la sinistra è una forza di vero progresso e di riforme.
I Cinquestelle potrebbero approvare il fatto che le spese per la conduzione dello Stato obiettivamente diminuirebbero e con loro le occasioni di ruberie, scongiurando consorterie.
Ma tutto questo non è. Certo! La riforma sarebbe potuta essere migliore. Innanzitutto ci saremmo aspettati di veder abolita o La Camera dei deputati o IL Senato. Non si capisce bene perché non sia avvenuto ma sia stato preferito un compromesso dove l’impalcatura della seconda camera resta in piedi. Ci si poteva concentrare su alcuni punti chiave, come il rapporto con le Regioni ridimensionandole totalmente delegando loro solo l’onere del controllo del territorio, sia sotto il profilo urbanistico che ambientale. Anche questo non è avvenuto. Ma non si può negare che questa riforma, già approvata ma necessitante di approvazione referendaria come vuole la Costituzione, segni un buon inizio. Diversamente, se dovesse esser battuta dagli italiani, non si potrebbe parlare di riforma costituzionale per altri venti anni. Ogni tentativo sarebbe un tabù. Ma l’effetto più nefasto consisterebbe nella dimostrazione al mondo della irriformabilità del nostro paese. Ed è questo, si spera, quel che nessuno vorrebbe. Ed è proprio per questo che nessuno dovrebbe votare no.