Fa impressione l'imbarazzo col quale i notiziari hanno dato l'annuncio della morte di Tullio De Mauro. Senza una parola di specificazione. Senza riuscire a dire con "due parole" il molto che ha significato questo maestro nella cultura italiana. Ciò, nonostante la sua continua attenzione a svolgere una linguistica militante, attiva nella società, sempre attenta a cogliere elementi del nuovo in significati, sensi, fonazioni e significanti. (Questa sarebbe stata la ripartizione in quattro grandi momenti che lui avrebbe apprezzato. In continuità all'insegnamento di Ferdinand de Sausurre ma anche di Benedetto Croce, grande filosofo in disarmo nelle menzioni del nostro dibattito ma che De Mauro non smise mai di citare). La prima cosa che ci si chiede alla dipartita di un maestro come lui è, cosa resterà di Tullio De Mauro dopo tanti anni di lavoro?
Sicuramente l'introduzione e la valorizzazione di Ferdinand de Saussurre. Giova ricordare che note e prefazione al Corso di Linguistica generale del grande maestro ginevrino fanno parte integrale del testo originale, tanto che anche nell'edizione in francese dell'opera sono comprese le rilevazioni di De Mauro. Dal popolo culturalmente più sciovinista del mondo non è poco.
Rimarrà di Tullio De Mauro l'opera somma di linguistica in centoventipagine, Minisemantica. Non si tratta di un compendio, bensì di un condensato di sapere. Perché quello che si sa, se veramente si sa, può esser detto in modo comprensibile per tutti, in "due parole".
Due parole fu il quindicinale che editò negli anni Novanta. Doveva spiegare agli stranieri con poche parole conosciute d'italiano cosa succede in Italia. Dirlo, spiegarlo, sempre in "due parole". Senza esser mai banali o semplificatòri.
Ma un testo che dovrebbe esser obbligatorio in tutti i licei e nelle facoltà di lettere, in Italia, è Storia linguistica dell'Italia unita ristampato qualche anni fa da Laterza.
E se un intellettuale è sempre figlio dell'ambiente che lo elegge tale, la fatica di un vero maestro consiste nel non esser per questo un derivato del contesto storico in cui vive. De Mauro avrebbe potuto seguire la tendenza semiologica dei suoi tempi - quella di Umberto Eco per intenderci - ma preferì sempre l'analisi degli usi sociali degli elementi significanti: dei purports, come diceva riprendendo Hjelmslev.
Ma va anche detto che la grande ipotesi fenomenica - che basa il multiforme associarsi di raffigurazioni di cose e azioni a locuzioni espressive-fonatorie agli usi sociali e sull'arbitrarietà che lega tra loro fonazione e senso - che si sofferma esclusivamente sullo studio del linguaggio come fatto fisico, è storicamente sconfitta.
Le neuroscienze hanno fatto piazza pulita della primazia dei contesti sociali e funzionali dando unica capacità generativa all'amigdala: una parte minuscola del nostro cervello in grado di coordinare significanze con locuzioni funzionali a veicolarle.
Non so come De Mauro ha vissuto questo ribaltamento di vedute. Sicuramente non deflesse mai dal vero impegno di un intellettuale. Quello di capire. Tra i tanti capitoli rimasti abbondantemente non scritti della sua attività di docente resta "La linguistica dalla parte del ricevente". Le risposte che lui cercava, in sede di analisi semantica, sarebbero state le risonanze magnetiche a darle. Sì. Proprio quei volontari che leggono o vedono film mentre una macchina osserva il funzionamento del cervello.
Le avrà sicuramente apprezzate e col piglio di chi non vuole palleggiare sulle questioni di fondo, avrà detto ai suoi discepoli: "mi raccomando, ragazzo, lo spieghi, lo espliciti, in due parole". Come diceva a me.
Gli sia lieve la terra.