Nel giorno della consacrazione di Totti, 28 maggio 2017, il giorno in cui gioca l’ultima partita come romanista o come giocatore professionista, sono inutili i bilanci ammanniti dalla sua celebrazione che è durata in tutti gli ultimi undici anni della sua carriera. Un primato assoluto nella storia pallonara Totti ce l’ha. Sicuramente. È infatti il coro di celebrazioni in vita. Non esiste un giocatore che non sia mai stato attaccato in un momento specifico della sua vita: Maradona per la sua indisciplina, Zidane per le testate, Cruyiff per non aver vinto il mondiale, Platini per essersi consegnato anzitempo al tempo inclemente, Rivera per la prosopopea, Mazzola per la mafietta che ingenerava nello spogliatoio … Ma Totti non fa parte di queste sfere. Totti è una proiezione del sentimento. E come dice un mio amico, Daniele Rossi, la sua grandezza consiste nel perpetrare il mito di Peter Pan che a quarantun anni non la vuole smettere di giocare e protesta se l’allenatore lo tiene fuori. Vuole sudare, tirare di calci e modestamente dimostrare che come li tira lui ancora non li tira nessuno tra i coevi. Tutti amano Totti. Totti icona di tutti. Anche i laziali lo omaggiano onorando quel sentimento di riconoscimento dell’avversario tipico della cultura romana. Difficile capire però che posto potrà prendere Totti nell’Empireo dei grandi. Quale configurazione resterà indelebile nella storia o se invece la sua figurina sbiadirà in tempi rapidi restando di qualche simbolismo solo in alcuni quartieri di Roma. Totti ha vinto pochino. E non perché è rimasto nella Roma. I venticinque anni in cui lui ha militato nella Roma sono stati i più generosi di campioni e potevano portarla a vette inimmaginabili. Alla prova dei fatti finali la Roma ha sempre deluso ma i tifosi si sono sempre stretti a lei in virtù del fatto che c’era Totti. IL capitano rappresentava con la sua accidia, con l’allegria di ragazzino e anche qualche segreta malinconia, ogni tifoso. Tanto che era facile riferirsi a lui. Possiamo dire anche che ha vinto un mondiale suo malgrado. Nel 2006 si sentiva già troppo vecchio per militare in nazionale. Voleva dedicarsi tutto alla sua Roma. Cori e preghiere in paginate sportive per chiedergli di mettersi a disposizione. E l’ha fatto. Alla fine. E ha vinto anche il mondiale. Merito suo, quello di aver battuto un rigore andato in rete. La nazionale di Lippi fatta di talenti con voglia di riscatto nazionale dal recente scandalo di Calciopoli era fatta di ragazzi pieni di orgoglio e talento. Non hanno avuto bisogno del numero dieci per trovare sistematicamente la via della porta. Così Totti non è mai riuscito ad esser guida, faro, riferimento, del resto della squadra. Ha bruciato un allenatore eccellente come Spalletti che si è ritrovato ma col quale non è riuscito a gestire un rapporto. Anche questo anno la Roma avrebbe potuto vincere lo scudetto. La differenza di punti con la Juve è data dalle regalie comminate alla Zebra. La Roma non è riuscita a dare quel qualcosa di più e sicuramente è eccessivo chiederlo a Totti. Se non l’ha fatto durante i venticinque anni di carriera come poteva farlo ora? (Non si capisce l'insistenza di tenerlo in rosa se non può esprimere un valore aggiunto). Eppure Totti oggi trova una celebrazione di sicuro più grande del suo talento ed è difficile vedere cosa il pubblico veda in lui. Forse la debolezza interiore che tocca anche ai grandi. Forse la vulnerabilità che sono riferite come umanità e lo rapportano in stretta consonanza a ciascuno degli idolatri. Totti oggi ha vinto. Ma solo lui. E ai romanisti sembra essere sufficiente. Questo delinea il volto della tifoseria a cui poco importa alzare banalmente una coppa, quanto interessa essere rappresentati e riconoscersi nel loro uomo-simbolo.