IN questo inizio di terzo millennio sono saltate le
categorie fondanti della cultura condivisa che sono state pilastro della
pratica effettiva della politica, quindi della democrazia organizzata.
In solo quindici anni si è passati dalla rottura del vaffa
alla paura per la pandemia, fino all’incertezza per la guerra. "Incertezza" che
sussiste nello stesso ruolo del punto osservante: la stiamo vedendo come
esterni la guerra ucraina oppure siamo già coinvolti?
E tra le incertezze: 1) quale ruolo della nostra democrazia
organizzata? Può il Primo ministro decidere se mandare le armi? Non
spetta al Parlamento? Si tratta di vero e proprio coinvolgimento in una
guerra?
2) Una riforma come quella dei doppi cognomi può essere data
dalla Corte Costituzionale quindi da un organo di controllo giurisdizionale?
Dove è finito il potere legislativo?
3) Esiste ancora un solco tra verità di fatto e verità di
ragione? Oppure ogni cosa è relegata al relativismo di chi osserva?
È questo lo sfondo dal quale sprofonda ogni tentazione di
tornare al realismo. Riportare al problema delle disuguaglianze, delle morti
nel lavoro, del lavoro sottopagato, significa incondizionatamente tornare a
dimensioni di inoppugnabilità delle ragioni. Significa togliere il margine ai distinguo. Non c'è limite al gioco dei paradossi rappresentati da posizioni unilaterali e fascinose. E invece una morte sul lavoro consiste in un dato puro e semplice. Non consente sfumature né
diverse interpretazioni. Lo stesso: il lavoro sottopagato. E così gran parte
delle questioni riguardanti il lavoro.
Il rifiuto della tematica fa parte integrante della
negazione del realismo. Una realtà che non è realtà, ma immersione nella
diversità e sprofondamento nella soggettività, non riesce a vedere quel che è reale come unica, vera, sorgente di discussione. (E, in fondo, si risponderà, lo stesso realismo consiste in una
prospettiva a cui ciascuno dà diverso spessore e proiezione analitica. Pare
proprio non esserci speranza di uscire dall’esplosione del difforme).
Il viversi nelle differenze non aiuta la crescita delle
diverse soggettività ma sconta il lutto per quel qualcosa che però non è morto
e non si capisce come sia finito nelle tendenze dialettiche. Il ‘senso del
mortum’ non esplicato - o non ancora espresso - si esprime attraverso il sentimento
diffuso del rancore.
Con l’espressione “rancore” si intende quello della famosa
frase di René Girard: “il rancore è il lutto per ciò che non c’è stato”.
Ad aver mancato l’appuntamento con l’esistenza reale è
proprio un aspetto del realismo, quale è quello del lavoro inteso come evidenza
della produzione vera e propria e come manifestazione dell’attività: non come
sopraffazione determinata da operazioni finanziarie, dettate a loro volta da
algoritmi come i calcoli della tecnica.
L’assenza di questa che si evidenziava come vera prospettiva
per l’umanità non manca di sopire nella coscienza inespressa per far emergere
quell’animosità chiamata da René Girard, come “rancore”. Superare questa fase – evidenziata sui Social, come dice Pasquale
De Rita nell’intervista pubblicata su L'Avanti (30 aprile 2022) – risponde alla vera missione del concetto di
lavoro, oggi. Liberare la sua centralità, nella quotidianità, recuperare il
realismo e nel reale proiettare le energie, oggi, gestite solo nella sfera
della soggettività.
Ed è questo il significato di “liberare il lavoro” e,
diversamente “liberarsi dal lavoro”. Superare questa barriera come costrizione
necessaria per avere una proiezione di sé. Bensì, riportare appieno la sua
dimensione di progetto e di cambiamento di quel che c’è.