“Bisogna parlare quando non è lecito tacere”, diceva Nietzsche. E su questo sprone una voce fuori dal coro dei facili anniversari fa bene per non cadere nel clima delle ricorrenze e della nostalgia, da una parte. Dall’altra però fa bene anche per non cadere nella trappola del mancare a un appuntamento doveroso: quello con il ripensamento critico della Storia recente.
Un bagno di laicità che serve a dare nitore alle lenti con
le quali interpretiamo il reale oggi stesso.
Su questa spinta allora appare almeno inadeguata la
sottolineatura che molti hanno fatto tra la figura di Enrico Berlinguer, di cui
oggi ricorre il centesimo anniversario della nascita, e la democrazia.
Quello che oggi dovrebbe essere un passaggio scontato nell’articolo
di Cuperlo su La Repubblica appare come un ossimoro. Il comunismo nei suoi
massimi intendimenti dovrebbe corrispondere alla democrazia nel suo massimo
grado di avanzamento. Denuncia quindi la piena consapevolezza che questo non è.
Che in ogni dove questa parola è stata vissuta in continuità alla sopraffazione
di un’enclave rivestitasi a grande guida del popolo. Una cerchia ristretta poco
attenta però alle dinamiche sociali.
Ma anche se fosse così, anche se Berlinguer avesse
rappresentato l’anomalia della fusione tra democrazia e comunismo, il concetto
appare ancora molto opaco. Tutta questa democrazia nel Pci non me la ricordo.
Berlinguer governò il partito come un re, scriveva Giampaolo Pansa, in tempi in
cui se eri del PCI ma non condividevi il compromesso storico non lo andavi a
dire in giro.
Roba che pare di qualche secolo fa, da raccontare a un
giovane incredulo.
Ora il santificare questa icona di alta politica ritengo sia
un male per i nostri tempi: fa sentire il distacco siderale da oggi. E non è
giusto. Si tratta di un'altra era nella storia dell'umanità dove quest'uomo governava
senza contraddittorio dei compromessi invisibili: 1) Nato-Urss; 2) non democrazia
applicata ma dirigismo del proprio soggetto politico, 3) utopia e realismo di
governo praticato nelle città, da una parte, e dall’altra ,'assecondare i
rapporti con la Balena Bianca.
Il miglior modo di dare il giusto peso a un personaggio storico
invece sarebbe quello di mettere in evidenza i gravi limiti – primo tra tutti
quello di aver capito troppo tardi che la spinta propulsiva dell’Unione
Sovietica si era fermata, sì, ma da tantissimo tempo, non dal 1982 quando
avvenne la svolta di Salerno.
Ed anche la considerazione che emerse dalla presa d’atto del
colpo di stato in Cile, non poteva postulare l’idea di un “grande compromesso
storico” bensì che invece con questo interlocutore centrista e subdolamente
dominato dal militarismo Usa non si potevano fare accordi. La linea già da
allora doveva essere quello della rinuncia a farsi ambasciatori del sovietismo
in Italia. La linea da prendere appieno doveva essere quella atlantica perché
era quello il nostro alveo. La dichiarazione del sentirsi maggiormente sicuri
nel solco della Nato ci fu, ma col nome “comunista” non poteva che apparire
parziale e poco credibile. Tanto più con contatti, risorse e filiazioni che
arrivavano dal capitalismo di Stato dell’Unione Sovietica.
Berlinguer ebbe il merito di tenere vivo un dibattito, anche
se tutto interno ad una cornice rappresentata dall’indiscutibilità del
segretario. Ebbe il merito di rafforzare questa idea di partito di massa, radicato
nella società e che in ogni dove rendeva il soggetto sociale protagonista del
cambiamento. Ma era sempre solo un’illusione. Le fila le tirava sempre la
segreteria e la sua persona.
Tutto questo non ha aiutato la democrazia. Tanto più nel suo
partito. E di ciò fu tutto chiaro quando dopo la sua dipartita il partito non
si riprese per anni. È che la democrazia là dentro non c’era mai stata.