Il mondo si compone del molteplice dei giudizi. Ma l'ego della soggettività non deve superare l'onere dell'indagine storica. Ed è in questo senso che voglio esprimere il mio dissenso dall’articolo pubblicato il
28 maggio a pagina 3 in cui annichilisce l’apporto dato da Ciriaco De Mita,
valutando invece quello di veri statisti dal nome di Enrico Berlinguer, Bettino
Craxi, Aldo Moro e anche Amintore Fanfani. Avendo incluso proprio tutti i
protagonisti della scena della Prima Repubblica degli anni Settanta e Ottanta
debbo dedurre qualche risentimento personale nei confronti di De Mita, che in
quanto a lucidità e capacità di individuare i rimedi facendo tesoro dei mezzi,
non fu secondo a nessuno, in quegli anni.
(Voglio anche chiarire bene che il punto di vista del
sottoscritto parte da una prospettiva non sospetta, avendo in quegli anni liceali
militato nel Pdup ed essendo stato un lettore assiduo del Il Manifesto).
Sansonetti divide le tipologie del politico in due categorie
fondamentali: colui che ha un visione e quello che invece cerca di governare l’esistente.
Tra le due figure è chiaro che Sansonetti prediliga la prima. E la scelta
estetica non potrebbe che dargli ragione.
Se non che anche per chi governa l’esistente bisogna dare
atto delle circostanze generali e specifiche in cui andava ad operare. De Mita
fece una scalata improvvisa alla Dc, partendo da una territorialità alquanto
negletta nella dialettica italiana. Ebbe il merito di “demitizzare” Craxi –
come lo stesso Andreotti gli riconobbe -
e riuscire a tenere in piedi la Balena Bianca che oramai pullulava di
malpancisti e pronti alla fuga. In questo modo fondò l’idea di un neo-centrismo
in cui doveva essere la Democrazia Cristiana a dare le carte a ciascuno
intrattenendo trattative riservate con ciascuno dei grandi interlocutori.
Non era scontato che questo gioco continuasse anche negli
anni Ottanta. Anzi, c’erano tutte le premesse perché questo strapotere poggiato
da un consenso schiacciante ma che non esisteva più, andasse in forte
deterioramento facendo saltare il banco. E invece con De Mita ha tenuto.
Chi scrive non è contento di questo. Non si fa un plauso a
questa grande impresa. Semplicemente, quando si tratta la fenomenologia di un
percorso storico lo si deve affrontare col distacco di cui necessita. Si
debbono in più cogliere le caratteristiche tipicamente epocali chiedendosi
costantemente cosa sarebbe successo se quel fatto, quel personaggio non ci
sarebbe stato. Contrariamente a quanto si sostiene, la Storia per essere
spiegata ha bisogno di molti “se” per capire che “se” invece è successo quanto
è successo i meriti ai suoi protagonisti vanno riconosciuti. E con meriti – si insiste
– vanno riconosciuti quelli per cui la compagine è stata vincente. Anche se non
gradita a chi scrive.
Questo dovremmo imparare dalla lettura distaccata della
Storia. E questo ci ha anche insegnato Ciriaco De Mita nella sua saggezza,
quando parlando degli eventi vestiva i panni di un filosofo neo-pragmatista.
Del resto è sopravvissuto alle mannaie di Tangentopoli. Dobbiamo fargliene un
torto?