Le cose accadono determinate da un destino che appare inesorabile. Ma non è allo stesso destino che si possono chiedere la spiegazione di quanto accade né si possono attendere illuminazioni sulle soluzioni. Quando queste arrivano non sappiamo da dove. Forse la determinazione di una donna-medico che riesce a trovare il bandolo nella matassa del contagio, forse dalla pioggia che come nella Peste di Camus segna simbolicamente la fine del diffondersi del male, forse è questa stessa peste che si pone come semplice metafora del continuo presagio della fine presente nella nostra stessa esistenza – come su Morte a Venezia di Thomas Mann. Forse ciascuno dei protagonisti è un dannato che cerca solo la fine ma non è abbastanza coraggioso per procurarsela tanto da preferire una palingenesi che lo accomuni con la sua specie. Financo la benedizione divina e la grazia ricevuta concorre a fornire una via di fuga dell’umanità dalle sue responsabilità. Quelle nei confronti dell’umanità di prossimità e di quella in senso generalissimo.
Nel film di Paolo Virzì, Siccità, in questi giorni nelle
sale, i richiami alle due centrali questioni di attualità – pandemia e appunto
la siccità – forniscono solamente un ancoraggio di attualità alla descrizione
del malessere originario consistente nella non appartenenza al mondo, alle
persone.
Ciascuno corre una sua corsa, ciascuno in-curante. Anche se
della cura e delle responsabilità specifiche si fondano le ragioni dell’inseguire
l’invisibile.
Nel rimbalzare ciascuno della sua incomunicabilità le storie si combinano tra loro, ma tutto ciò pare solo a beneficio dello spettatore. Il narratore offre uno spaccato, ma l’infinità delle tragedie potrebbero tracimare fino a coinvolgere lo spettatore in sala.
Non conta non essere il tassista che si
addormenta alla guida e allucina (Valerio
Mastandrea). Non ci si può non sentirsi diversi dalla medica glaciale
incurante di un ragazzo investito (Claudia
Pandolfi). Inutile eccepire come surreale la figura della giovane manager
che per caso si trova a gestire grandi responsabilità (Emanuela Fanelli). Infruttuoso giudicare stereotipata la figura
dell’italiano frustrato che se la prende con ragazzo di colore (Max Tortora). Vano chiedersi se è credibile quel carcerato che per caso esce da Rebibbia (Silvio Orlando) … Le verità di ciascuno non concorrono a formarne
una di tipo superiore che sia in grado di spiegarle tutte.
Tutti, però, protagonisti-non-protagonisti, presentano quel
tratto di disarcionamento dalla Terra. Sia intesa nel senso delle
responsabilità nei confronti del mondo che intesa nel senso banale di “terra-terra”:
il banale, ossessivo, ma irrinunciabile richiamo alla reciprocità come ricerca.
In questo gioco da far impazzire, in cui a cominciare dalla natura nessuno fa
più quel che ci si aspetta da lui, non si riconosce la santità e nemmeno i
comportamenti criminogeni.
Ciascuno, in tal senso, peccatore di un’offesa al senso
fondamentale dell’Esserci - nel senso dell’accettazione della propria esistenzialità
in concomitanza di altre. La convinzione di partecipare a una missione più
grande inevitabilmente riporta al fallimento di quella più ordinaria. Ma è
questo stesso fallimento che si attesta nei confronti del mondo. Per tanto la
Terra si ribella e manda i suoi segni: la siccità.