Nessuno ha avuto il coraggio di tematizzarlo apertamente. Quanto tempo dovrà passare perché tutti si dica serenamente, pacatamente, che anche il secondo film di questa produzione Manetti “è una cagata pazzesca”?
L’operazione è voluta essere rispettosa dell’estetica
fumettistica e già qui la pretesa è fuori luogo perché due diversi sistemi di
comunicazione non possono pretendere di essere conseguenti l’uno all’altro.
La recitazione effettuata con lo stilema della non
recitazione. Un fatto sicuramente voluto. L’attore in questo caso, sta accanto
al personaggio che lo interpreta e insieme a tutta l’operazione
cinematografica, non vuole creare ipnosi da immedesimazione nello spettatore.
Come nel fumetto, si pretende salvaguardare quel distacco per evidenziare il
piano della finzione presente nell’esaltazione del crimine.
Ma tutto questo sarebbe stato ugualmente possibile
affidandosi alla pessima recitazione degli attori. Miriam Leone l’unica a
strappare una sufficienza stiracchiata. Monica Bellucci, la peggiore, è
riuscita ad aggiungere alla pessima attitudine alla recitazione anche la
pretesa di dare un volto algido alla contessa Altea. Completamente fuori
maschera, Valerio Mastandrea nell’improbabile Ginko. Ma la perla è
rappresentata dalla personificazione di Diabolik. Probabilmente si è ritenuto,
giustamente, che Marinelli non fosse adeguato. Nel primo film aveva già
dimostrato di non essere a suo agio nel dare volto ad un uomo glaciale. E
allora avanti il nuovo volto! Se si partiva dal taglio e dal colore degli occhi
forse avrebbe raggiunto una promozione. Ma il resto è da scartare. Fisico tarchiato,
totalmente inadeguato. Sbagliate quindi, le inquadrature dove lo si riprende
interamente. Poco longilineo e poco alto per dare la statura al “re del terrore”.
La storia dice di riprendere da un fumetto originario, ma nello
svolgimento non risolve la questione elementare di porre la prospettiva
narrante da parte della giustizia, dei poliziotti, del senso comune, in modo da
dare a Diabolik ed Eva Kant meno inquadrature, meno cose da dire, più enigma.
Un’operazione che centra perfettamente l’obiettivo del
fallimento completo nel rendere il giallo a fumetti una storia godibile allo
spettatore che si è avvicinato al film unicamente per la grande dedizione alle
narrazioni dei piccoli volumi in quasi sessanta anni.
Deve fare riflettere gli storici del nostro cinema come in
una trama che sembrava già scritta, un personaggio epico che doveva solamente
essere declinato in un soggetto pieno di battute e colpi a sorpresa, si traduca
in un fallimento totale. Non aiutano le musiche ispirate al Jazz Rock dei primi
anni Settanta tipicamente italico: Banco, Rovescio della Medaglia, Goblin,
Balletto di Bronzo.
Il cinema italiano non è al primo fallimento. Un altro mito
dei fumetti nostrano, Tex Willer, è stato rovinato nella sua trasposizione
cinematografica a cui nulla poté l’amato Giuliano Gemma nei panni del ranger e
capo navajo.
Pare ci sia una pervicace volontà autolesionista del nostro
cinema nel rovinare i baluardi dell’immaginario giovanile di almeno due
generazioni: quelli che furono ragazzi dagli anni Sessanta fino agli anni
Novanta. Tutti hanno sognato le trasposizioni cinematografiche dei loro eroi a
fumetti. Gli americani ci hanno realizzato un business riuscito artisticamente
e infinito commercialmente. Le esperienze italiane saranno destinate ad essere
lasciate nel dimenticatoio. Potremmo annoverarlo come un esempio di autolesionismo.
Quando mancano i soggetti d’Oltralpe da scimmiottare, manca lo stimolo a fare
bene. Ed è anche questo un contrappasso per un popolo stimato per essere la
coltura dell’arte e dell’ingegno creativo.