ilnardi.it
Pablo Picasso
con lui a Parigi, abolendo forme, colori, profondità, idee...


Ma un bel ritratto, come si faceva una volta, no eh! Fu un inverno quello del 1916 passato a Parigi con Pablo Ricasso in cui stavo un po’ su di giri ma francamente non ne potevo più della sua conventicola di acchiappa nuvole. 
Con Pablo, Amedeo Modigliani e André Salmon condividevo anche pane e cipolla. L’alimento preferito però consisteva nel fumus delle diallele estetiche. Si passava dalla necessità di continuità filologica con i presunti predecessori delle nuove tendenze ma in contempo si asseriva la rottura, come inevitabile nuovo corso dell’espressione. Però ogni discussione sul senso, sul significato, sull’atto espressivo era accompagnato dal buon gusto evitare nel modo più assoluto la parola “arte”.
A un certo punto io ebbi bisogno di una decina di quadri che riproducevano nature, ritratti, paesaggi molto realistici e proposi di farlli a Picasso. Ce li avrebbero pagati molto bene. Bisognava mettersi al lavoro perché li avremmo venduti a buon prezzo per il salone di una giovane coppia borghese che stava arredando casa. Lui rifiutò sdegnato. “Quando ero piccolo sapevo dipingere come Raffaello – diceva di sé divertito ma non per questo meno serio – Mi ci è voluta una vita intera per imparare a disegnare come un bambino. Intendo con la sua libertà creativa”.
Cercavo di balenargli che sarebbe bastato un piccolo sforzo e avremmo avuto le tasche per continuare a lavorare secondo l’ispirazione libera. Bastava una passeggiata fuori e in un giorno avremmo avuto tutto il materiale da completare per la consegna dei quadri. Lui liquidò: “I mediocri imitano, i geni copiano”. 
Con Fernande Olivier, la sua ragazza, che lo assecondava in tutto non c’era verso di riportarlo a più miti consigli, in più era concentrato sulla sua nuova forma espressiva che i suoi adulatori amavano chiamare cubismo sintetico e che non ne aveva per un contatto con la strada, con le pulsioni che non arrivassero dalla mente, compreso l’eros. Era impossibile parlarne, non c’erano mai dieci minuti per noi. Con acchiappa-nuvole del calibro di André Breton, Guillaume Apollinaire e Gertrude Stein sempre tra i piedi, non era possibile mai approfondire nulla. Tutto era sempre come sospeso da una nuvola.
Fu mentre ne discutevamo a Montmartre che mi decisi a strappargliela l’intervista sulla quale mi rimandava da mesi in attesa di qualcosa di definito da dire a parole.
Picasso può spiegare al mondo chi è Picasso?
“Certo che no! Che li paghiamo a fare i giornali e i tipi come te che quando qualcuno fa qualcosa si affrettano a spiegare al mondo cosa ha fatto e perché l’ha fatta?”
Qualsiasi lavoro ha una direzione e un verso…
“Posso dirti che togliendo prospettiva, quindi il senso della profondità e della spazialità, voglio raffigurare quel che esiste solo nella mente e che la mente ha in sé, al di là delle impressioni che l’esperienza sollecita nell’intelletto.”
Un esempio?
“Les Demoiselles D’Avignon.”
Lì nelle figure centrali io ci ho visto la tua Spagna e l’Africa nelle due figure di destra. Sbaglio?
“Qui siamo al di là dell’errore. Il magico ma anche il limite dell’elaborazione di un’opera, del lavoro di una persona di un artigiano, consiste proprio nell’esser portatore di contenuti. Non esiste l’opera senza chi la guarda.”
E tu in questo caso non c’entri niente?
“Il mio tentativo impossibile consiste nel dare immagini che si danno in tempi diversi, con lo stesso effetto d’insieme. Un modo per ricordare a ciascuno di noi come in qualsiasi elementare prospettiva, per sua natura relativa, ci siano in contempo tutti i punti di vista.”
Non è un modo per tornare all’oggettività e al superamento del relativo?
“Questa è una domanda troppo scema per me. Già mi sono esposto troppo, prova a farla a qualche tuo collega.”
Voglio parlare del colore, prima di mandarti definitivamente a quel paese. Non trovi che i pittori della tua generazione abbiano rinunciato a lavorare sulle timbriche del colore?
“Mah! Forse si vuole semplicemente evitare di dare effetti speciali che tra poco la normalità della Tecnica riuscirà a rendere con maggiore esattezza di quanto potrà essere riprodotto in forma artigiana. Ma non credo però sia solo questo…”
Cosa altro?
(Storce la bocca, fissa lo sguardo quasi a cercare la risposta da qualche parte nascosta nella sua testa). 
“È che la natura-oggetto e la persona-soggetto sono realtà vive e in movimento, e ciò che si vuole cogliere è la relazione tra i due ritmi di moto. 
Quella fissata su tela deve riuscire ad essere il risultato del comportamento dell’occhio nel corso della percezione! 
Mai e poi mai questo somiglia ad un’istantanea in cui sono levigate tutte le sfumature cromatiche rese possibili dalla destrezza del pennello. Quello raffigurato su tela somiglia a un processo, non a un flash incredibilmente ben fatto. Quello proposto dal pittore, o meglio dal sottoscritto, non può fare a meno di essere il risultato di un’analisi, quindi un processo della mente.”
In tutto questo discorso mi sono perso i colori…
“I colori, come la prospettiva e le proporzioni, non esistono in natura. Non c’è nulla che provi che la natura sia colorata. È l’occhio che non si limita a ricevere, bensì li produce i colori. Tutto parte dalla nostra mente. Colori, prospettiva, proporzioni, ma anche categorie formali. La mente elabora e rende conforme al proprio ordine interno. Ma se a fine Ottocento poteva esistere qualche ordine interno, dentro e fuori di noi, quale ordine può proporre un povero pittore che non può limitarsi a rispecchiare il raffigurativo come è stato fatto finora. Oggi un produttore di immagini artigianali non fa proprio nulla se non riesce dare esattamente cosa vede.”
Tutto questo fa perdere la struggente rappresentatività dei colori. Il rosso che dà senso di gravità, dignità, benevolenza, il verde un colore che dà equilibrio, un colore rilassante…
“Tutto questo nella tradizione con evidente successo ed efficacia nel riuscire ad evocare questi sentimenti! Ma qui si sta lavorando a qualcosa di diverso. L’uomo ha perso il suo filo di contatto con la natura e anche con la sua storia. Gli è rimasto solo ciò che è ma nel più profondo e inaccessibile delle dimensioni del proprio essere e non può sfuggire alla scommessa di capirlo.”
Per questo i mediocri imitano i geni copiano?
“Ci sei andato vicino ma se camminando mi porti in quella taverna a Montparnasse possiamo continuare a parlarne più sereni.”

link