Solo per i grandi della Storia un nome solo non è sufficiente. Tra definizioni, l’assimilazione a figure trascendenti, la vera sconfinatezza supera il vincolo del nome di battesimo. Ed è per questo che, anche quando era in vita, per chiamarlo non poteva essere sufficiente Edson Arantes do Nascimento. Pelé, il suo nome vero. Il ‘grande Pelé’, come rafforzativo della grandezza. Tutti nell’emisfero terraqueo lo conobbero con la definizione O’ Rei (il Re). Perla Nera è l’altro suo nome distintivo. Ogni grande giocatore stellare nella storia del Calcio è stato assimilato a lui per dare la cifra della grandezza assoluta (l’espressione partenopea: “Maradona è mejo e Pelé” proprio per esaltare le prodezze dell’argentino in relazione alla grandezza assoluta).
Si parte sempre dal nome o dai nomi per dare il senso di una
grandezza indefinibile e del suo universalismo. Forse perché in quei conflittuali
anni Cinquanta e Sessanta, mentre si accentuava la lotta contro la segregazione
razziale e il Black Power prendevano
quota, Pelé rappresentava l’immagine del nero integrato.
Pelé ha sempre dato corpo alla saggezza suprema. I suoi
pareri sul Calcio riempivano le prime pagine. Le sue apparizioni in momenti di
rappresentanza erano prontamente evidenziate al livello di una grande performance sportiva. Il tutto semplicemente perché è
stato il più grande di tutti. Sia come prestazioni che come risultati
conseguiti in termini di vittorie. Con l’inarrivabile merito di aver vinto i
Mondiali di Calcio per tre volte nella carriera - la prima a diciotto anni in Svezia, nel ’58, quattro anni dopo
in Cile 1962 e poi nel 1970 in Messico - gli altri grandissimi sono assimilati a lui per dare un termine di grandezza assoluta. Il “Pelé
Bianco” riferito a Johann Cruiff o Gianni Rivera, ma anche George Best. Tutti
giocatori superlativi, ma che per dare il senso della loro eccezionalità dovevano
essere assimilati a quella grandezza inarrivabile.
In carriera Pelé ha giocato 816 incontri ufficiali segnando
757 reti, alla media di 0,93 gol a partita. Questo sia in squadre di club e
nazionale maggiore. In Brasile, dal quale non si è mai sostanzialmente
allontanato (ed è questo il suo limite),
ha vinto dieci campionati col Santos, quattro il Torneo Rio-San Paolo, sei il
Campeonato Brasileiro Série A e cinque (peraltro
consecutive) la Taça Brasil e altre competizione prestigiose. Gli ultimi
tre anni di carriera, dal 1975 al 1977, è stato esposto come trofeo negli Stati
Uniti dove, anche lì, ha conquistato un Campionato NASL con i New York Cosmos.
Tutti lo ricordano nel film Fuga per la
Vittoria (regia John Houston del 1981)
dove nella fiction si esprime nella
sua leggendaria rovesciata che manda la palla in gol.
Nel 1961 in Brasile è stato definito Tesoro Nazionale e nel 2011
Patrimonio storico sportivo dell’umanità.
Tutto questo per sintetizzare con estrema brevità i suoi
riconoscimenti pubblici nel mondo. Qualità che derivano dall’immensa abilità di
attaccante, play maker, dimostrando ugualmente insuperabile abilità tecnica e
grande qualità agonistica.
Più volte si sono accese voci di un suo arrivo in Italia. Nel
‘58 Angelo Moratti lo convinse a firmare un contratto che però dovette
rescindere dopo l’aggressione di un tifoso al presidente del Santos.
La sua aura di leggenda si sostiene nella carriera
calcistica con una miriade di res gestae.
Ha segnato otto volte in una sola partita contro il Botafogo. Era il 22 novembre
1964 e giocava chiaramente col Santos. Sempre col Santos il 19 novembre 1969 arrivò
al gol numero mille. Fu tripudio nazionale e leggenda in tutto il mondo.
Ed ancora lo è. Il suo esempio può essere assimilato a
quello dell’esemplificazione del Sacro nella Storia con cui Santa Madre Chiesa
ha rafforzato l’idea di eticità nel cristianesimo. L’attestazione che in questa
mondana vita si può dare la prova della Santità come una cosa data.