Prima di lui il pensiero dell’Occidente era soggiogato da
due grandi pesi. Il deismo per cui non era stata sufficiente la “lama” di
Immanuel Kant per operare “il taglio” e l’idea cartesiana di una natura data
come fissa immutabile per cui si poteva solo scrutare, osservare e capire.
Sulla base degli stessi principi che si sostengono sull’operatività
sul campo - quindi nell’immersione nei contesti analizzati – l’elemento oggetto
di analisi non è dato ma soggetto a costanti mutamenti, anche se non è detto
che possano piacere al soggetto indagato.
Con Darwin finisce l’ottimismo su cui era stato impostato lo
spirito scientifico. Anche nella scienza non si procede per ulteriori mattoni
coi quali si edifica la struttura ma invece con continue demolizioni-ricostruzioni.
E fu così che Darwin distrusse nettamente la teoria di Lamarck al tempo
prevalente per cui l’essere adeguandosi al suo ambiente riusciva a trasformare
sé stesso per il fine della sopravvivenza. Se questo era un po’ vero, secondo
Darwin, era tanto più vero che le trasformazioni arrivano per selezione
naturale: chi non è adeguato a rispondere alle condizioni di sussistenza
semplicemente muore e consente a chi invece possiede le caratteristiche giuste
per sopravvivere di vivere.
Una tesi potentissima nelle implicazioni che comportava. Da
una parte faceva un plauso il liberalismo. Si giustificava così la
stratificazione sociale con l’idea di pionieri che avevano costituito qualcosa
più grande del semplice stato di natura. E questo qualcosa era costituito dalla
produzione, prima, poi dalla produzione in serie, in ultimo dal mercato.
Rispondeva Marx la cui edizione de IL Capitale era dedicata
proprio a Charles in Darwin, in risposta polemica, avvalorando del nodo
sostanziale della tesi, ma, cosa più importante, rovesciando il suggello trovato
dal liberalismo. Marx nel secondo libro della sua opera monumentale spiegava
come era in verità nato il capitalismo e come la ricerca di condizioni di
mercato migliore per tanti lavoratori della terra nel Seicento aveva consentito
a tanti di cercare sostegno a ridosso delle città, nell’Inghilterra di quei
tempi. Questa condizione aveva sollecitato all’affermazione delle arti e delle
attività in cui si realizza l’irrealizzato, non semplicemente viene utilizzato
quel che arriva dalla natura per la sussistenza. Questo movimento aveva
consentito di salire lo scalino evolutivo costruendo le prime proto-attività
artigiane e dopo la necessità di trovare altra forza lavoro dalle braccia che
fuggivano dalle campagne. Di lì la nascita del mercato, nella necessità di
trovare riscontro delle attività di produzione. Si rovesciava, quindi, la
progressione voluta dal mondo liberale. E il mercato che voleva essere il
grande motore era invece lo sbocco in grado di tenere in piedi quanto costruito.
Pur non conoscendo le tesi di Darwin questa lettura si
inscriveva in falso alla lettura data nell’Evoluzione della Specie. Di fronte
ai cambiamenti dello stato di cose l’uomo aveva una possibilità di modificare
la sua condizione attraverso il lavoro. Ed era questa la lezione che Marx aveva
appreso da Hegel.
Ma se conservava un carattere confutatorio la prosecuzione
della narrazione marxiana doveva invece confermare la tesi darwiniana. Nello
scontro di classe che si determinava con la creazione del lavoro alienato la massa
dei lavoratori doveva riconoscersi come prevalente e sostanziale, da qui
sarebbe arrivato lo scontro in cui la classe degli sfruttatori non poteva che
soccombere. Pur senza poterlo dichiarare la tesi confermava il livello
evoluzionistico determinato da quello che Hegel avrebbe chiamato “il Mortum”
come esplicazione di un inevitabile conflitto.
Tutto ciò potrebbe essere sufficiente per decretare in
Darwin il pensatore più importante della modernità oramai arrivata alla fine. Ma le classifiche, come
tramandava Benedetto Croce, sono un’offesa all’intelligenza storica. E a questi
insegnamenti ancora noi ci atteniamo volendo osservare evoluzioni nostre.