La prospettiva della fine del primo quarto di secolo deve imporci categorie nuove per affrontare i temi nodali che riguardano la nostra vita. Tra i primi c’è proprio la forma di governo che intendiamo darci nelle realtà territoriali riconosciute che ci contraddistinguono. In tal senso bisogna superare la sbornia ideologica di fine Novecento inizio Duemila che ha visto l’Europa come la grande occasione per un’Italia troppo indebitata per stare al passo con le altre grandi. Ma si deve superare anche l’antieuropeismo del secolo scorso che faceva sognare al nostro paese sovrano col ritorno alla vecchia lira. D’altra parte le aberrazioni decisionali (dalla polvere di grillo all’obbligatorietà del cappotto termico per tutte le abitazioni) scaturite da Bruxelles hanno confermato certi livelli di scetticismo. Bisogna pur dire però che l’opportunità dei finanziamenti per l’innovazione attivati col PNRR hanno ridato una valutazione al governo d’Europa conferendogli una valorizzazione pratica diversa dal passato quando all’Italia costava assai di più stare in Europa dei benefici pratici che ne provenivano.
In estrema sintesi questo insieme di ragioni e
contro-ragioni spingono alla necessità di una nuova fondazione per l’Europa,
sotto il profilo politico. Oggi convive nello stretto tra non esser più e non
essere ancora. (ivi, pag. 9). (Una
dimensione assai simile alla contraddizione ontologica dei nostri tempi di cui
parlava Martin Heidegger).
Il vizio sarebbe nato da Hans Kelsen. Il vizio
originale consisterebbe nell'anteporre il diritto internazionale a quello degli stati sovrani (pag.
78). Ma anche i più superficiali possono recepire nel concetto d’Europa qualcosa
che va ben oltre il condizionamento della convenienza di un mondo che a fine
millennio temeva di essere sovrastato dalla globalizzazione, dai mercati forti,
da un’economia sempre più forte verso la quale gli stati nazionali nulla
potevano.
L’Europa rischia di rimanere stretta dal liberal comunismo e
la retorica dei diritti. Questa strada ha percorso, oramai completamente, un
vicolo cieco. Si tratta, ora, di immaginare un altro volto ma soprattutto
dargli un altro destino. E per attuarlo ci vogliono i popoli, non l’élites
(pag. 125). Fare questo è possibile. “C’è bisogno di una mitopoiesi che
costituisca e ripristini la simbologia e intorno ad essa costruisca
legittimazione delle strutture politiche” (pag, 126). Il passaggio è di
radicale importanza perché implica che le ragioni d’essere dell’Unione vanno
tutte ripensate e inverate in un processo critico capace di mettere da parte
egoismi oligarchici ed ogni tipologia di interessi di parte. Petrocchi ha piena
coscienza della difficoltà dell’impresa, proprio considerando l’unità d’Italia
raggiunta nel 1861 ed ancora non pacifica per la sussistenza di una “questione
meridionale” ancora tutta aperta.
Il passaggio dalla tecnocrazia alla sovranità, secondo
Petrocchi, avviene con l’affermazione del concetto di identità. E su ciò si
deve ben modulare rispetto la deriva che l’abuso significazionale potrebbe dare
al termine di identità. Citando ripetutamente Veneziani Petrocchi guarda al
comportamento di chiunque si trovi lontano da casa per lavoro, per necessità,
per scelta, ma non possa far a meno di pensare alle sue terre con la nostalgia
evocativa di un sentimento di appartenenza che trascende la semplice
malinconia. Si tratta di un’osservazione molto immediata in grado però di
rafforzare il senso di un’intuizione originaria. Quella per cui ciascuno è in
virtù delle sue origini e queste sono date dallo spazio materiale in cui hanno
preso forma, idea, sostanza e memoria. Un approccio che sono superficialmente
appare superficiale. Si pone, invece, come fondativo del senso di appartenenza
dei popoli alla loro terra e alla volontà di determinarsi come forza agente
affinché la rappresentanza eletta sia espressione dell’area di origine e non
disarcioni mai in mondi impossibili. L’Europa col bagaglio di forza morale e
intellettuale di cui ha dimostrato ampiamente nella Storia ha questa
possibilità di deviare dal corso fin qui preso. Debbono essere i popoli
d’Europa a sceglierlo.