Non serve dimostrare che gli scritti fatti girare da Alfredo Cospito contenevano contenuti ideologici e nessun ordine di azioni violente. Non serve nemmeno evidenziare la condizione umana di cinque mesi di sciopero della fame. Inutile anche sottolineare che sollevandolo dallo specifico regime carcerario non si attenuerebbe la pena che comunque l’anarchico sta scontando per i suoi reati.
Il giudice di sorveglianza del tribunale di Milano ha deciso
che Alfredo Cospito deve rimanere al regime di 41bis. Uno degli argomenti del
rifiuto si riferisce proprio allo strumento di lotta (lo sciopero della fame) che essendo finalizzato al convincimento dei giudici potrebbe essere annoverato come metodo di lotta efficace anche da altri. Come
se fossero i modi di condurre una contesa ad essere determinanti per la loro
riuscita.
Lo sciopero della fame serve affinché la protesta sia di
dominio pubblico e il caso di un singolo diventi oggetto di discussione. Ma la
scelta dei giudici deve guardare ai livelli di legittimità per cui sono state
adottate delle misure coercitive. È chiaro che nel caso di Cospito queste
misure non sussistono. Il 41bis pensato per modificare le condizioni detentive
di organizzazioni criminali che potevano consentire all’arrestato di
esercitare, anche in carcere, la sua azione criminale, non può applicarsi al
caso degli anarchici perché ne è dimostrata l’assenza di un’organizzazione
gerarchica.
Ci si chiede invece cosa succederebbe se Cospito perdesse la
vita in carcere. Il sentimento di avversione allo Stato come forma organizzata
troverebbe una conferma essendo riconosciuto nell'aspetto repressivo. Da un
contestatore diverrebbe una vittima, la condizione diverrebbe incontrollabile.
Anche qui, però, la risposta del volto repressivo rifiuta di
assecondare la richiesta e ciò per non apparire debole davanti alla possibilità di
una protesta forte.
Ma la ragione per sollevare Cospito da quel regime speciale
consiste nel fatto che non esistono le condizioni per applicarlo. Non ne è
sorpreso neanche chi lo difende, l’avvocato ha infatti detto: “non confidavamo
in alcun modo in questa iniziativa, rappresentava un passaggio obbligato per
adire, anche sotto questo profilo, le giurisdizioni internazionali”.
C’è una consolazione: “l'ubicazione nel reparto ospedaliero
dove si trova possono essere monitorate nel modo più attento" – si è
espresso nella sentenza di rigetto.
Quel che manca nel nostro dibattito è la tematizzazione del
problema. Non può infatti passare inosservato questo lato della legislazione
carceraria del quale si è probabilmente abusato per ridurre i condannati in
stato di deprivazione. Non si tratta, quindi, di metterli nell’impossibilità di
comunicare quanto nella condizione di maggiore impoverimento esistenziale tanto
da maledire lo stesso essere in vita. Condizioni che somigliano più alla
tortura che alla condizione detentiva in uno Stato moderno. Di questo debbono
discutere apertamente nella sfera della politica e delle decisioni. Ma questo
non si va. Gli anarchici comunque non votano.