Falcidiato
dalla critica marxista come colui che ha legittimato la ricchezza dei
capitalisti e non quella delle nazioni, come invece titolava la sua opera di
maggior pregio, Adam Smith non smette di far discutere. A tre secoli le sue
tesi continuano a costituire la base costitutiva, gli assi cartesiana di una
teoresi economicistica che nei secoli ha prese strade e linee di lettura totalmente
lontane da quelle del genio scozzese.
Ma è l’economia
reale ad aver preso dei tratti connotativi del tutto diverso, tanto più in un’età
in cui il dibattito imperversa sulla liceità delle criptovalute.
Lo scenario
su cui si trova a riflettere Smith guarda invece a una condizione di fatto
rivoluzionaria per quell’inizio Settecento dove la società è cambiata
radicalmente senza volerlo ammettere a sé stessa. Tramontano inevitabilmente i
potentati sorretti dal possesso della terra, del denaro e della possibilità di
aggiudicarsi il favore delle armi. C’è un’altra forza che ha preso le ali. Si
tratta di quell’oscura serie di quelli che oggi definiremo artigiani che,
diversamente, in diverse realtà, si sono concentrati a ridosso della città dove
poter estendere la base produttiva di strumenti che negli anni hanno sempre più
mercato e sempre più necessità di nuovi operatori e nuovi spazi dove essere
collocati merceologicamente.
Non a caso
Smith nella sua osservazione sugli andamenti di queste prime fabbriche segue
una linea, per così dire, mercantilista. Mettendo insieme i risultati, le
performance si direbbe oggi, tira una linea di quella che lui definisce 2ricchezza
delle nazioni”. È perché questa ricchezza non può riferirsi solo ai singoli che
ne sono titolari ma inevitabilmente si distribuisce in termini di diffusione
del lavoro e dei conseguenti salari, ma anche di potenziamento degli scambi. In
tal senso potrebbe definirsi l’inventore della macroeconomia.
A Smith già
da allora non sfugge che a determinarne fortune o sfortune non è solo lo
stretto andamento in termini di profitto ma anche le tendenze generali: il
clima politico, il senso di sicurezza delle persone (così si direbbe oggi),
tendenze culturali e ideologie sociali.
Innanzitutto
analizza il "potere produttivo del lavoro". Quindi il fenomeno della
distribuzione sociale della ricchezza. Si pone per primo il problema della
sussistenza del lavoro in termini di salario base col quale il lavoratore può
sostenere sé e la sua prole. Così considerarlo come base fissa nei costi di
produzione.
Il valore di
un bene prodotto inevitabilmente deriva dal lavoro che è servito per
realizzarlo. E questa costituirà una base costitutiva per determinarne il
successo perché il prezzo non è stabilito in questa aritmetica del lavoro più
la necessità di profitto bensì da una cosa pazzesca, imprevedibile e
indeterminata come il mercato.
Altre
questioni, ancora oggi preminenti, sono la conseguenza di questo distretto
concettuale che fornisce il senso assoluto del successo o il fallimento di una
produzione.
Quindi la
qualità di chi produce consiste nel determinare le condizioni affinché si
produca con minori costi. Quindi, la questione della divisione del lavoro
insieme alle modalità generali per dare ad ogni singolo elemento produttivo il
massimo della produttività possibile. Ciò attiene anche all’aggiornamento degli
strumenti di produzione, da quanto il soggetto che architetta il sistema di
produzione riesca a innovare la tecnologia di cui dispone.
Chiaro è che
siamo entrati pienamente in un ragionamento in cui la centralità sta tutta
nella nascente “industria”. Nella divisione del lavoro in fabbrica non fa altro
che replicarsi la stessa divisione che esiste nella società per fasce di
competenza con la necessità di interscambio tra loro.
Siamo già
nei termini in cui l’industria si pone come autentico sostitutivo dell’idea di
Stato sorretto da un sovrano che ha ereditato una struttura complessa trovata,
non inventata, come succede invece al creatore di impresa.
C’è un
rovescio però. La cosiddetta serializzazione. Il lavoratore nel fare sempre lo
stesso gesto, nell’essere confinato sempre alla stessa funzione diventa quella
funzione. Si evidenzia una delle figure dell’alienazione di cui avrebbe parlato
Karl Marx: “l’uomo diventa la macchina e la macchina l’uomo”.
Smith allora
guarda ad un’evoluzione del soggetto-addetto-alla produzione nei termini di
persona vera e propria. Ma questo deve avvenire nella società concreta. E a
pensarci deve essere lo Stato, non il “datore di lavoro”.
-
Quindi ad alienarlo ci pensa il
padrone e a disalienarlo ci pensa lo Stato. Solo che l’alienazione, in termini
di disagio, è lo Stato a pagarlo. Stato che però non conosce base produttiva né
ricchezza originaria.
–
Ma per
disporre una macchina produttiva più efficiente il creatore di produzione ha bisogno di capitale. Lì deve esprimere la
capacità di sapersi affacciare al mondo, superando l’unilateralità di affermare
il proprio Sé in termini di costruzione e capacità tutta individuale. La sua
capacità produttiva quindi ha il secondo scoglio. Il primo era quello banale
del mercato in cui doveva affermarsi la merce. La seconda prova, fondamentale,
è quella di misurarsi nella facoltà di mettersi in relazione, competizione ma
anche antagonismo. – E sicuramente uno
dei più grandi interpreti del lavoro intellettuale di Smith fu Hegel nella
Fenomenologia dello Spirito. Cosa che l’attento analista di andamenti, sostanza
produttiva e tendenze all’incremento non si sarebbe mai aspettato: essere
valorizzato da un metafisico per eccellenza -
Non gli va
bene però con un altro attento – attentissimo
– osservatore che nel guardare bene smaschera quella che ritiene la maschera
ideologica vestita dall’analista liberale. Marx inverte dall’inizio quella che
è una desinenza presente nelle teorie classiche per ultima voce: il denaro. Il
filosofo di Treviri inverte quel primo, apparente ingenuo, andamento delineato
da Smith. Non è che la dinamica si svolge nei termini di Merce – Denaro – Merce. Bensì il contrario. È il denaro il termine
interpretativo di questa storia fantastica raccontataci dagli economisti
classici. Quindi l’andamento è Denaro –
Merce – Denaro.
Ed è proprio
secondo questa visuale che l’operaio vive la sua alienazione sostanziale. Lui è
il realizzatore del bene ma non ne gode i profitti in termini materiali, gli
unici possibili, quelli del denaro ricavato. Questo perché una parte è
sottratta dal creatore di questo meccanismo. Marx lo chiama “capitalista”.
Perché è sul capitale la sua forza (capacità
di elargire un salario) e sempre sul denaro il suo reato, oltre la sua res.
La volontà deliberata di sottrarre profitto al vero produttore. Si vive qui la
vera alienazione perché l’operaio non vive del bene prodotto e del bene in
termini economici che può dare. Bensì il bene gli è sottratto dal capitalista.
In tal senso l’operaio è un alienato. Sua è la produzione ma irraggiungibile
per lui è il prodotto.
La
dialettica su questi fattori di idee hanno campeggiato per quasi un secolo fin
quando le sbornie del militarismo come modello di controllo sociale, ma anche
di sua formazione alle origini, prendesse il sopravvento ed essere spazzato
dalla Storia.
Oggi forse
dovremmo ritornare ad Adam Smith. Ripartire dall’origine, in questo dibattito
per recuperare i fondamentali di una discussione che si avvita sempre più in
termini impalpabili come la bit economy e la possibilità di arricchirsi
attraverso la pura finanza puramente speculativa. E il vecchio Marx
improvvisamente appare ancor più vecchio ma non meno verace.