Kundera è un
genio. Il predicato dell’essere copulativo mette al riparo da ogni ontologia
forte di un’esistenza semplicemente presente. Ha in più il merito di consegnare
la genialità a quella dimensione imperitura che non è soggetta al tras-correre
delle cose. Quel maledetto passare che donne e uomini si ostinano a fissare con
concetti messi in usura dal loro stesso passare ad altro.
Milan
Kundera è stato lo scrittore di questa metafisica. Della necessità di aderire a
un mondo nuovo in cui essere e dalla coesistente bisogno di accettare quel che
c’è per continuare ad esistere. Ma quest’ultima vissuta non come condizione di
rassegnazione disperante. Bensì come posizione di forza. L’unica possibile in
grado essere nel tempo. Fermarsi. Fissarlo. Guardare al mondo possibile che in
definitiva è proprio perché delineato in un’immaginazione non relegata a
fantasia. Ma anche questa, cosa consistente.
Kundera è il
narratore dell’indicibile. Non c’è sua opera che potrebbe rimanere in sordina.
Ciascuna delle sue cre-azioni è riuscita a dire qualcosa sulla “mondità del
mondo”.
Impossibile
non menzionare l’opera più menzionata per l’allegoricità del titolo: L’insostenibile
leggerezza dell’essere. Nella traduzione italiana l’evidenza di una
semplificazione eccessiva perché in termini heideggerriani si sarebbe detto “nell’esserci”,
catalogano il Mit Dasein nella
categoria magna in cui si muovono i protagonisti: Lucas, Sabrina, Tereza … Ma a
ben guardare non sono queste semplici esistenze a non trovare possibilità di
sostegno. La leggerezza insostenibile convive nella condizione oggettiva in cui
si trovano a vivere e il loro trovarsi sta, in fondo, tutta la loro verità
possibile.
Potremmo
ricordare il Kundera di Amori Ridicoli, dove alla convenzionalità dello stare
si antepongono le condizioni generali in cui avvengono gli incontri ed il loro
successo.
Ma al di là
di tutta l’eredità lasciata all’umanità dal genio dovrebbe oggi essere ripresa
la sua conferenza su L’Occidente rubato e
la tragedia europea. (In Italia si
trova la sua versione in sintesi nella conferenza in Cecoslovacchia al IV
congresso dell’Unione scrittori del 1967 nel testo editato da Adelphi col
titolo ‘Un Occidente Prigioniero’). Kundera fa derivare il declino del
cuore di questo continente dalla venuta meno di un suo polo, quello orientale,
formato dal crogiuolo di culture, lingue e tradizioni dell’Ungheria, della
Cecoslovacchia e della Polonia. Nella Storia hanno sempre rappresentato un
contraltare necessario alla cultura classicista formatasi a Roma e diffusa nei
secoli col cattolicesimo.
Inutile dire
quali siano le cause di questo imbavagliamento. L’aver tacitato tanto da confondere
la “madre patria” con Mamma Russia del regime di socialismo reale ha comportato
questa confusione per tutti e il perdersi di linguaggi, stimoli, spinte
innovative che sono sempre state al cuore del cambiamento dello stato di cose.
Questa dinamica si è arrestata con la realtà del regime riconosciuta come l’unico
stato di cose possibile.
Kundera è il
portavoce di questa profonda sofferenza che nel tutto il continente si è
avvertita, anche da parte di chi non ha vissuto i grigiori di quel regime. Ne
ha comunque sofferto dovendo fare i conti con le sue suggestioni e dovendosi
difendere da certe sue preclusioni inevitabilmente sconfinanti.
Non ci sarà
più Kundera come testimonianza vivente. Ci sono le sue opere da leggere e
rileggere come comprensione di uno stato di cose altrimenti inesplicabile con
le semplici descrizioni dei rapporti di forza.
La forza
consiste tutta nel recepire tanto e per tanto rivendicare il diritto ad un’esistenza
autentica.