Impossibile
nella pausa estiva resistere alla tentazione di pronunciarsi su Michela Murgia
in occasione della sua dipartita. E bisogna ammettere che in stretta relazione
alla sua personalità il demone evocato in lei fa uscire di tutto, di più.
Ciascuno si sente il diritto di dire la sua su di lei, finora rimasta un
personaggio assai divisivo. Lo era in vita non può far a meno di esserlo alla
fine del suo corso e con le stesse modalità dirompenti con cui la conoscemmo
nelle sue polemiche televisive.
Resta
giustamente alla memoria per suoi spunti letterari, quali, ad esempio, Tutta la vita davanti consacrato in film
da Paolo Virzì (2008) dove ha il coraggio di mettere in scena
le condizioni di lavoro delle telefoniste impegnate nella professione del
momento: il call center. Il romanzo
ha il titolo emblematico: Tutto il mondo
deve sapere.
Però il
premio Campiello lo riceve nel 2010 per un'altra narrazione dal titolo Abacadora dove racconta delle intricate
relazioni al femminile in un paesino sardo dove le persone si riconoscono per
le rispettive storie segrete. In questo ambito vita, non vita si intrecciano e
sospese rimangono le responsabilità degli accadimenti. La morale per cui “le
colpe come le persone iniziano ad esistere se qualcuno se ne accorge". E
la negazione del riconoscimento fornisce un alibi a ciascuno per non soccombere
al destino.
Altri spunti
letterari di alterno interesse, ma Murgia sarà ricordata per la sua antipatia
professionale in tivvù. La povertà
sostanziale imperante nel dibattito pubblico somiglia alla trama di una sua
narrazione e anche alla figura che di Sé ci lascia.
E non si
capisce bene se le sue intemerate televisive fossero motivate dal disperato
tentativo di far parlare di lei oppure se gli venissero spontanee. Tanto per
ricordare alcune sue perline, espresse la sua inquietudine quando fu affidato
al generale Figliuolo, prossimo a prendere le redini sull’organizzazione
nazionale alla vaccinazione. Quella divisa militare non gli diceva niente di
buono.
Sempre in
tivvù paragonò Giorgia Meloni alla camorra.
Sempre la
Murgia polemizzò contro la Marina militare che durante la manifestazione del 2
Giugno, a suo dire, aveva ostentatamente mostrato il braccio teso a mo’ di
saluto romano. Circostanza negata dai protagonisti e non documentata.
Se l’era
presa con Battiato per le castronerie scritte nei suoi testi dimenticando che
in versione poetizzante delle parole possono avere semplicemente l’indirizzo di
evocare situazioni diversamente bisognose di lunghi discorsi.
Riuscì a
litigare, sempre in tivvù, con lo psicoanalista Raffaele Morelli che le risponde:
“zitta e ascolta”. Il tutto in un dibattito sul sessismo di certe posizioni
apparentemente estetizzanti, quali il desiderio presuntamente imprescindibile
di una donna di essere seducente. Una tesi sicuramente azzardata ed estrema,
quella del Morelli, che alla Murgia proprio non andava giù tanto da incalzarlo
con veemenza dialettica.
Memorabile
una sua ironica profezia nella quale, rispondendo alla pochezza letteraria di
Fabio Volo, asserì: “un giorno gli alberi si ribelleranno”. Alludendo alla
molta carta inutile per stampare i suoi testi diventati dei best seller.
Gli esempi
possono moltiplicarsi. Quasi non c’è ospitata televisiva in cui Murgia riusciva
a non essere debordante. E la sua fortuna è dovuta a questo. Non altro. Nessuno
ricorda i suoi meriti letterari né aver detto certe cose può esser riconosciuto
a merito.
Ma la Murgia
ci insegna che questo è anche la morte. Tutt’altro che una livella. Semmai un’ascesa
per meriti imprecisati riconosciuti da chi resta.