Questi giorni i notiziari bombardano costantemente con le notizie di violenze nei confronti di donne. Si riprende la notizia del femminicidio di Giulia Tramontano, la donna in cinta di sette mesi, accoltellata, ma precedentemente in predicato di essere assassinata col veleno. Insieme, tante altre notizie ferali di violenza fisica, come di procurata morte.
Non si capisce bene la ragione dell’orrore all’ascolto
realistico di narrazioni di questo tipo a cui si antepone una certa attrattiva
per i racconti fantasy di altre storie immaginarie. Comprensibile il fastidio
che se ne ritrae riconosciuto come necessario e universale. Incomprensibile la
mancanza dello stesso sentimento nelle mani e nelle azioni di chi agisce in
modo criminale.
Notoriamente l’argomento è stato trattato da Hannah Arendt nel suo famoso libro – La banalità del male – dove riporta i
dati processuali di chi si fece autore di stermini di massa e individuali
durante gli anni del terrore nazista. In ciascuna delle deposizioni degli
imputati ci si giustifica col fatto che si eseguivano degli ordini, come se
l’esecutore avesse una capacità di giudicare quanto stesse facendo pari allo
zero.
A ben guardare però, leggendo Hannah Arendt, la considerazione che se ne trae è diversa. "Il
male" appare come una proiezione giusta e salutare che affiora a
posteriori. Pare non esistere nel determinarsi della storia stessa. E questo
vale sia che la parola "storia" sia scritta con la minuscola o con la
maiuscola. Il "male" si configura come processo autocoscienza della
ragione ma non possiamo sperare che costituisca un argine al suo stesso
perpetuarsi. Semplicemente perché non c'è come categoria nel momento in cui
vengono a determinarsi i fatti messi ad esame. La sua banalità quindi consiste
nel suo farsi architrave della narrazione che però indica il non esserci nella
dinamica descritta. I fatti di cronaca di cui leggiamo in questi giorni
confermano questa assenza nell'estrinsecarsi dei fenomeni ma anche questa
immane presenza nell'essere delineata la fenomenologia. Esempio: come può il
compagno di una donna in cinta ordire la sua eliminazione fisica col veleno e
non riuscendoci perseguire lo stesso fine accoltellandola? È pazzesco. Anche lì
è stata totalmente sollevata da qualsiasi categoria etica la condotta che ha
ispirato l'assassino. Così altri episodi.
La connessione tra i fatti del nazismo e i fatti efferati di
cronaca nera sta nella presenza quasi costante di un fine che, mentre nel primo
caso, appare come un fine supremo, liberatorio dell’umanità (e questo vale anche per le purghe staliniane
come per qualsiasi omicidio politico), nel secondo appare liberatorio di
chi opera in modo criminale. In entrambe i casi c’è un fine.
Con la finalità, appare all’omicida, superare la sfera etica
dell’azione. Ed è una condizione che sussiste solo nell’atto non nella sua
considerazione storica e coscienziale. Molto spesso l’omicida prende coscienza
di quanto ha fatto comprendendone la gravità abnorme.
E allora la domanda si sposta: quand’è che il fine in atto
diventa il solo motore determinante di quel che si fa? Perché in alcuni si
scioglie il vincolo etico davanti alla perpetrazione dell’atto criminale? Si
vorrebbe rispondere che tutto dipenda dalla mancanza di formazione ma
l’esperienza porta a guardare a una miriade di esempi in cui persone
perfettamente formate non hanno avuto molte remore.
La ragione pare albergare tutta nei coinvolgimenti emotivi e
neuronali per cui si muovono alcune sinapsi oppure si bloccano. Ma
l’aberrazione del mondo della tecnica consiste nell’attesa di una ricerca e di
uno studioso di turno che verrà a spiegarcelo. E sulle contromisure troveremmo
solo l’inizio di altri mali.