Gianni Vattimo se n’era andato da tempo. Da quando dava notizia di sé solo attraverso note di cronaca rosa sulle sue difficoltà di persona a sostenere l’ultimo passaggio della sua vita terrena. Straziante il suo ultimo intervento nella trasmissione di Gruber quando era chiaro che l’uomo non era più in grado di portare a termine un discorso coerente.
Ma del resto è sull’incoerenza sostanziale tra logos e
realtà effettuale che Vattimo aveva fatto il pilastro di una nuova corrente di
pensiero la cui fortuna ha segnato il passo del dibattito negli anni Ottanta.
Il Pensiero Debole prendeva le mosse da Lyotard, Gadamer e l’ultimo Heidegger
per attestare l’impossibilità nell’era post moderna di trovare un pensiero
conglobante sulle contraddizioni della propria fase. In effetti Vattimo diceva
di più. Questo pensiero, in definitiva, non c’era mai stato. Le illusioni dei
classici fino a Cartesio segnavano lo scacco nel quale ogni filosofia aveva
sempre dovuto soccombere. Non facevano differenza, chiaramente, i pensatori
caratterizzanti Illuminismo e Romanticismo. Ma dal loro canto avevano però il
merito di aver fatto loro un campo di indagini rinunciando a contemplare la
sfera inaudita dell’essere.
Ma il lato debole in cui si costituisce il pensiero come
tale, non era possibile da enunciare – come coerentemente faceva notare
Vattimo. Pena, il ricadere in una nuova forza. Se, dichiaratamente, una nuova
visione del mondo non poteva ambire a considerarlo nella sua completezza
tantomeno poteva definire sé stessa.
Volente o nolente, forse al di là delle sue vere prime
intenzioni, i due libri curati da Vattimo – Il Pensiero Debole e la Condizione
Post Moderna – ebbero un successo spropositato. Citati, vituperati, anche
filologicamente villaneggiati dai loro colleghi, l’intuizione di Vattimo fece
discutere negli anni Ottanta. Riportò il cespite di un pensiero nostrano al
centro di un’attualizzazione della riflessione in cui, dopo Benedetto Croce, il
nostro paese era da tempo assente.
Però non si può non guardare al centro del suo scaturigine la
grande delusione derivata dai grandi sistemi di pensieri che già negli anni
Ottanta abdicavano alla loro storicità. Marxismo, da una parte, Liberalismo e
turbocapitalismo mostravano le aberrazioni quindi evidenziavano la grande
delusione in cui i sistemi di pensiero si erano affermati nel mondo nell’età
post-totalitaria.
Il pensiero di Vattimo, sebbene mai tematizzato in questo
senso, non poteva non guardare allo sfondo di questa grande delusione in cui
per la priva volta nella storia dell’umanità, un sistema di pensiero si era
affermato come sistema di vita collettivo.
L’insegnamento del sistema ermeneutico professato nel
Pensiero Debole, allora, doveva prendere le mosse dai suoi stessi consapevoli limiti.
Affrontare ogni tematica così come si affrontano le asperità di un testo dove
la conoscenza non può prescindere dalle lenti con cui l’analista si sforza di
coglierne le caratteristiche di fondo. Ma all’accusa di soggettivismo e
nichilismo, quella del Pensiero Debole, rispondeva guardando a questa
condizione come oggettiva - cioè facente
parte dell’oggetto di analisi - e costitutiva - essente sostanziale della capacità analitica osservante.
Col nuovo millennio del Pensiero Debole così della persona
Gianni Vattimo era rimasto ben poco. Un ricordo per i suoi affezionati
discenti, una nostalgia per chi era sopravvissuto dall’età delle ideologie o
dei grandi pensieri conglobanti.
Difficile sarà il compito di riportarne una testimonianza
fede-degna che valga nella Storia almeno il rispetto per qualcosa di
caratterizzante di un’epoca. Ma forse Vattimo aveva previsto anche quello. La
Storia non è vero che sia devi vincenti ma di chi sopravvive. Ed anche questa
potrebbe essere una conclusione debolista.