Emerson Lake & Palmer è l’unico dei grandi gruppi del
rock ad aver mancato l’appuntamento col “disco perfetto”. Si chiama “disco
perfetto” l’opera messa su vinile che non presenta alcuna pausa creativa, dove
non c’è una nota che sarebbe potuta essere diversa, dove non c’è un brano più
fiacco. Nel disco perfetto tutto suona ancora a distanza di anni. L’opera si
pone alle generazioni future come esemplificazione dell’alto valore espressivo
a cui è arrivata quella formazione musicale o quell’artista singolo.
Emerson Lake & Palmer non potevano seguire questo trend
di stilizzazione creativa ottimale perché il loro approccio era sempre lanciato
per quel che ancora non era e doveva essere suonato per essere. Con pieno
rispetto degli altri gruppi che avevano trovato un Sound o uno stilema musicale
al quale riferirsi per continuare la loro marcia creativa, i tre viaggiavano
tra improvvisazioni, ritorno al melodico spinto, elettronica ma ad uso sempre
della classica scala dodecafonica, tendenza al sinfonico, fughe nel mondo di
improvvisazione che li aveva anteceduti e che i più azzardati critici
cominciavano a definire Jazz-rock, fino a motivi scanzonati scritti e suonati
per il solo gusto di divertire. Tutto questo erano Emerson Lake & Palmer.
Era chiaro che in questa coesistenza di momenti così diversi tra loro qualcosa
sfugga anche a questa non-definizione.
In tal senso la grandezza e anche il limite di Brain Salad Surgery di cui oggi, 19
novembre, si celebra il cinquantesimo anniversario.
Il disco apre con dei brani oggi, a dir poco, inattuali. Jerusalem è il rifacimento di una
canzone da chiesa che i tre ci avrebbero potuto risparmiare. Toccata la
versione di una sinfonia tradotta al sintetizzatore, basso e percussioni che
esprime il sentimento irrequieto per l’incapacità di trarre qualcosa di
veramente nuovo e insieme la volontà di comporlo. Benny the Boucer, un motivetto da saloon che ci avrebbero potuto
risparmiare. (Si salva qui l’improvvisazione
al pianoforte che faceva presagire Honky Tonk Train Blue di cinque anni dopo,
un’altra era geologica). Immancabile l’appuntamento con la melodia
arpeggiata dalla chitarra di Lake a cui sta da sottofondo un sintetizzatore
irritante che si giustifica solo nel trovare coerenza con l’impiego di suoni
utilizzati nel resto del disco.
Ma dopo arriva la bomba. La suite divisa in tre parti. Karn
Evil 9. L’inizio all’organo, l’arrivo di basso e batteria, la voce, la melodia
che sembra fuggevole ma si ripete costantemente intermezzata da assoli al
sintetizzatore o all’organo che portano avanti il brano senza mai cadere l’ispirazione
di un attimo. La seconda impressione è sostanzialmente un lungo assolo al
pianoforte che ha bisogno di essere intermezzato da un altro assolo ai timpani
e poi far riprendere il sintetizzatore che in questo brano era rimasto quieto.
Tutto esplode e viene ripreso nella Terza impressione dove la voce e melodia di
Lake assumono un tono trionfalistico. Seguono continue improvvisazioni e
riprese canore fino al grande finale di virtuosismo al sintetizzatore.
Sbagliò, al tempo, chi scrisse che in questo disco Emerson
aveva tolto lo scettro del potere a Lake. Diversamente, in questo disco i tre
sono finalmente gruppo. Non debbono associarsi alle partiture scritte da
Emerson o Lake né dare semplicemente soddisfazione alle smanie percussive del
giovane Palmer. I tre suonano partiture che vanno per tutt’è tre. Anche se i
limiti delle primogeniture dei brani, almeno all’inizio, si percepiscono
chiaramente.
Ma le tre Impressioni sono la dimostrazione che un rock
sinfonico era possibile. Ed era possibile rimanendo rock. Senza le pompose
acrobazie vocali e all’organo di Wakeman con gli Yes. Senza dover portare
orchestre o simil tali in contesti assolutamente inadeguati come altri colleghi
avrebbero fatto.
Sulla copertina anche una rivoluzione in vitro. Si è usciti
dalla dittatura silente di Hypgnosis
per dare incarico a un artista vero. Ci si astiene dal voler entrare nel merito
della rappresentazione perché inutilmente oggetto di letteratura più attinente
al gossip che all’Estetica.
Il disco resta. Quel che resta è che le generazioni in
divenire potranno ancora apprezzarlo.