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20 febbraio '24 - Etica
Brehme, un'intelligenza superiore
Regista, terzino, uomo-squadra ebbe il merito di dare senza far mai pesare la sua presenza fondamentale in campo


È stato il vero regista, il leader, dell’Inter dei record. L’Inter dei tedeschi, con Lothar Matheus. È morto a 63 anni Andy Brehme, ex terzino sinistro dopo esser stato mediano in Germania. IN Italia è conosciuto grazie all’Inter dei record ma anche come campione del mondo con la Germania a Italia ’90. Fu proprio Brehme a segnare il rigore decisivo nella finale del Mondiale di Italia ’90 vinta dai tedeschi all’Olimpico di Roma contro l’Argentina. Con l’Inter, all’epoca guidata da Trapattoni, vinse un campionato, una Supercoppa italiana e una Coppa Uefa nell’arco di un quadriennio.

Bild ha parlato di arresto cardiaco come causa del decesso, un cuore che si è fermato dopo aver dato tanto nonostante la non veneranda età. Sempre secondo la Bild i soccorsi sarebbero arrivati troppo tardi.

La figura di Brehme è quella che viene dimenticata dai più. Non appare come eroe indiscusso o discusso delle cronache calcistiche di un tempo o di quelle attuali. Su di lui non si sofferma l’immaginazione prodotta dal ricordo ma anche quella produttiva stimolata dalle mirabolanti imprese.

Questo perché il gioco di Andy Brehme era sempre di tessitura. Pochi i gol. Molte le imbeccate, le illuminazioni che davano nuovi esiti al corso della palla togliendo ripetitività dei passaggi ma aggiungendo precisione nel destinatario inaspettato per i rivali. Brehme era questo. Quasi totalmente sconosciuto in Italia quando Pellegrini volle riformare la sua Inter pensò all’acquisto sensazionale: Lothar Matheus, il centrocampista assoluto, l’uomo tutto campo, micidiale nel tiro in porta, così come nel passaggio illuminante e nel recupero. Mathes volle con sé un compagno senza del quale il suo gioco era come privo di una gamba. C’era Andy Brehme. Semisconosciuto, si era affermato però come mediano. Giocatore tutto campo, impostava da dietro.

Il Trap individuò per lui l’evoluzione tecnica, per altro già sperimentata. Divenne terzino sinistro. Rimanevano intatte le sue facoltà di uomo teso all’impostazione del gioco e alla copertura. Ma da sinistra! Avrebbe imbeccato i centrocampisti nell’impostazione dell’azione gol o sarebbe andato direttamente al cross per l’attaccante che si liberava.

E così fu. Nell’età del Milan mondiale l’Inter vinse uno scudetto battendo una serie di primati nel nostro campionato, macinando gioco su gioco e vittorie senza replica. L’anno dopo il sogno si incrinò, proprio con l’arrivo di un altro tedesco Jurgen Klinsmann. Ma alcune pedine modificate tolsero ai giocatori in organico la voglia di soffrire e la determinazione di vincere.

Andy Brehme sempre nel suo ruolo non ebbe mai modo di far rimpiangere il suo arrivo, a differenza del suo mentore che si involò in avventure personali che lo distolsero dal lavoro che un agonista deve sopportare.

L’affermazione nel nostro campionato dette la maglia sicura anche in Nazionale e Brehme non deluse le aspettative imponendosi come regista, ma sempre defilato, sempre impegnato a un lavoro sostanziale, mai troppo visibile da togliere la scena ai più altisonanti nomi in organico. Memorabile un gol all’Olanda di Van Basten che ricordò a tutti il senso di una mentalità vincente.

Uscito dal calcio giocato, il suo nome appariva solo tra i più irriducibili nostalgici del pallone nerazzurro. Ora che non c’è più finalmente assurgerà al mito che avrebbe dovuto essergli riconosciuto in vita. E allora saluto come sempre alla Gianni Brera.

Gli sia lieve la terra.