È stato il vero regista, il leader, dell’Inter dei record. L’Inter
dei tedeschi, con Lothar Matheus. È morto a 63 anni Andy Brehme, ex terzino
sinistro dopo esser stato mediano in Germania. IN Italia è conosciuto grazie all’Inter
dei record ma anche come campione del mondo con la Germania a Italia ’90. Fu
proprio Brehme a segnare il rigore decisivo nella finale del Mondiale di Italia
’90 vinta dai tedeschi all’Olimpico di Roma contro l’Argentina. Con l’Inter,
all’epoca guidata da Trapattoni, vinse un campionato, una Supercoppa italiana e
una Coppa Uefa nell’arco di un quadriennio.
Bild ha parlato di arresto cardiaco come causa del decesso,
un cuore che si è fermato dopo aver dato tanto nonostante la non veneranda età.
Sempre secondo la Bild i soccorsi sarebbero arrivati troppo tardi.
La figura di Brehme è quella che viene dimenticata dai più.
Non appare come eroe indiscusso o discusso delle cronache calcistiche di un
tempo o di quelle attuali. Su di lui non si sofferma l’immaginazione prodotta
dal ricordo ma anche quella produttiva stimolata dalle mirabolanti imprese.
Questo perché il gioco di Andy Brehme era sempre di
tessitura. Pochi i gol. Molte le imbeccate, le illuminazioni che davano nuovi
esiti al corso della palla togliendo ripetitività dei passaggi ma aggiungendo
precisione nel destinatario inaspettato per i rivali. Brehme era questo. Quasi totalmente
sconosciuto in Italia quando Pellegrini volle riformare la sua Inter pensò all’acquisto
sensazionale: Lothar Matheus, il centrocampista assoluto, l’uomo tutto campo,
micidiale nel tiro in porta, così come nel passaggio illuminante e nel
recupero. Mathes volle con sé un compagno senza del quale il suo gioco era come
privo di una gamba. C’era Andy Brehme. Semisconosciuto, si era affermato però
come mediano. Giocatore tutto campo, impostava da dietro.
Il Trap individuò per lui l’evoluzione tecnica, per altro
già sperimentata. Divenne terzino sinistro. Rimanevano intatte le sue facoltà
di uomo teso all’impostazione del gioco e alla copertura. Ma da sinistra!
Avrebbe imbeccato i centrocampisti nell’impostazione dell’azione gol o sarebbe
andato direttamente al cross per l’attaccante che si liberava.
E così fu. Nell’età del Milan mondiale l’Inter vinse uno
scudetto battendo una serie di primati nel nostro campionato, macinando gioco
su gioco e vittorie senza replica. L’anno dopo il sogno si incrinò, proprio con
l’arrivo di un altro tedesco Jurgen Klinsmann. Ma alcune pedine modificate
tolsero ai giocatori in organico la voglia di soffrire e la determinazione di
vincere.
Andy Brehme sempre nel suo ruolo non ebbe mai modo di far
rimpiangere il suo arrivo, a differenza del suo mentore che si involò in
avventure personali che lo distolsero dal lavoro che un agonista deve
sopportare.
L’affermazione nel nostro campionato dette la maglia sicura
anche in Nazionale e Brehme non deluse le aspettative imponendosi come regista,
ma sempre defilato, sempre impegnato a un lavoro sostanziale, mai troppo
visibile da togliere la scena ai più altisonanti nomi in organico. Memorabile
un gol all’Olanda di Van Basten che ricordò a tutti il senso di una mentalità
vincente.
Uscito dal calcio giocato, il suo nome appariva solo tra i
più irriducibili nostalgici del pallone nerazzurro. Ora che non c’è più
finalmente assurgerà al mito che avrebbe dovuto essergli riconosciuto in vita. E
allora saluto come sempre alla Gianni Brera.
Gli sia lieve la terra.