La politica affidata alla capacità di parlamentare,
discutere, guardare al particolare che è sempre un ben altro il particolare.
Forse il lascito concettuale tramandato da Luigi Einaudi al centocinquantesimo
dalla nascita (24 marzo) è proprio questo. Non tanto o molto meno l’economista
o l’esempio di presidente della repubblica italiana. Bensì proprio la capacità
di guardare le specificità non come particolari o eccezioni di un problema più
complesso e nemmeno nella volontà di inserire il ragionamento generale
complessivo nella volontà di inglobare veramente il tutto. Piuttosto il
lasciare le cose al loro posto per osservarne le capacità evolutive e
potenziarne le modalità di crescita.
Non è il liberalismo il trionfo del particolare e solo in
ultimissima battuta la visione del generale tutto insieme come risposta non come
sommatoria delle specificità?
Oggi la sua lezione resta di grande suggestione cognitiva.
Si ricorda spesso il suo esempio con un aneddoto quando in consesso
internazionale, in una cena di rappresentanza, essendogli servita una pera
dalle dimensioni troppo grandi chiese ai commensali se ne volevano la metà
uscendo da ogni cerimoniale. Questo era Einaudi. Ed insieme questo semplice
episodio appare come un modello per chi professa il pensiero liberale. La
spinta individualistica non deve mai trasformarsi in indifferenza egoistica.
Bisogna sempre guardare agli equilibri creati nella collettività perché questi
hanno comunque un richiamo nella buona riuscita individuale.
Ma la lezione più importante consiste nel profitto da
cercare non tanto per il suo fine bensì come mezzo per l’“avanzamento materiale
e morale dell’umanità”. Anche perché sempre, e definitivamente, l’avanzamento
di uno corrisponde, e corrisponda, all’avanzamento di molti.
Einaudi faceva, sì, l’elogio del profitto. Nel profitto dell’uno
la prosperità per molti. E questo significava essere società. Ai più incalliti
appassionati di approfondimenti economicistici o a manager in crisi di identità
Einaudi avrebbe sicuramente consigliato la rilettura di Adam Smith. La sua Ricchezza
delle Nazioni consisteva in qualcosa di complesso perché alla complessità non
bisogna rinunciare, pur seguendo sempre orientamenti della res individuae. Una società, si insiste, non è solo quanti
individui la compongono. La sua ricchezza non si tira con la somma algebrica di
grandi facoltà monetarie sottratte a tante altre miserie.
Ed è qui la difficoltà di un mestiere che pare banale e
puramente denotativo ma abbisogna invece di quell’esprit de finesse. L’economista vero non è solo quello che fa di
conto e fotografa la realtà. Come poi ci ha insegnato Fredrich von Hayek, il buon economista non è mai un buon
economista.