Agostino Di Bartolomei deve far parte dei grandi campioni
incompresi. Dei talenti che non fanno scrivere molto i giornali perché non
hanno una vita dissoluta, non inventano pazzie in campo, non hanno
atteggiamenti istrionici, non segnano gol a raffica…
Ma segnano quando sempre quando sono nelle condizioni di
farlo. Sono un punto riferimento certo per la squadra che accompagnano per mano
alla vittoria come un padre prende per mano i suoi ragazzi infondendo loro
tranquillità ma anche determinazione nei momenti salienti.
Questo era Agostino Di Bartolomei e spiace ai romanisti che
non abbia potuto finire la sua carriera nella sua città trovando “il Barone”
Niels Liedholm suo grande estimatore quando se ne andò al Milan portandosi
dietro il Capitano.
Agostino Di Bartolomei peccava in mancanza di velocità. E si
trattava di una caratteristica che cominciava ad emergere allo scoperto in un
football sempre più nevrotico e con gli schemi dove ogni giocatore è sempre
impegnato nel complesso delle azioni pur senza palla. Ma era proprio qui che si
rifletteva la grandezza di Agostino. Coi suoi lanci riusciva a far spostare
compagni di squadra pur a grande distanza, fornendoli con dei passaggi sempre
impeccabili.
Quei lanci di sessanta metri finiti esattamente nel piede
buono del giocatore scivolato in attacco oppure sulla sua testa. Il tempo
giusto per centrare la palla del compagno che entrava in azione centralmente
per insaccarla. Di Bartolomei era lui stesso la certezza dello schema.
IN quegli anni andava anche un tipo di ruolo come il suo.
Diversi suoi colleghi come Schuster fecero fama e fortuna nei più grandi club
del mondo. Diversamente da Agostino che aveva una personalità tesa sempre a
stare un passo indietro, a guardare per impostare senza chiedere per sé mai i
favori della fama.
Con queste caratteristiche più umane che tecniche fu chiaro
che il suo ruolo finì nel diventare da centrocampista di pregio nella sua
squadra a centrocampista aggiunto e alla fine nel ruolo di difensore centrale.
Perché la sua azione diventava ancor più inesorabile se partiva dalle retrovie.
Implacabile nei rigori come nelle punizioni. Forse si deve a
lui la caratteristica del giocatore che ti salva una partita storta grazie a un
calcio di punizione finito in gol. Con questo sistema la Roma che stava
provando il calcio a zona riuscì a salvarsi dal pericolo del declassamento in
Serie B. Ma quando gli schematismi entrarono al meglio videro nuovamente in
Agostino il suo grande artefice.
La sua uscita di scena con azione intemerata su sé stesso si
comprende nell’incapacità, sempre notata, di chiedere aiuto. Non era un
esibizionista nella vittoria non lo fu anche nel rovesciamento di fortuna. Roma
come il Milan lo ricordino come un grande amico, anche se la decisione di
disputare la partita alla sua memoria avrebbe potuto destinarsi anche in
Italia, solita a dimenticare invece i suoi figli più schivi.