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02 novembre '24 - Estetica
In ricordo di Emerson
Oggi, 2 novembre, avrebbe compiuto ottanta anni di età


Ci ha lasciato l’11 marzo nella sua casa a Santa Monica. Si è sparato un colpo di pistola quando ha capito che la sua vita oramai era estromessa dalla partecipazione attiva alla costruzione del fatto musicale, al suo trasmetterlo con altri trovando soluzioni innovative agli armonici nei quali si avventurava cercando soluzioni nuove.

Ed è la sua fine per le ragioni per cui è data già meriterebbe di entrare nel mito. Anche se un evento di morte per le sue ragioni non entra nella celebrazione se autoprodotto. Rappresenta però una formidabile sintesi per la sua contraddittorietà nella concezione. L’atto creativo, col quale ebbe sempre un rapporto a dir poco contraddittorio, ha la forza di sublimare l’esistenza ma la riduce a niente se alcune condizioni fattuali di vita non consentono di operarlo fattivamente. Ed Emerson per sé non avrebbe accettato mai di fare il grande vecchio, facendo passerelle, applaudendo per i suoi brani suonati da altri, intervenendo di tanto in tanto –con l’autorità che avrebbe meritato – nella valutazione di questo o quell’altro musicista. Ruoli che sarebbero andati bene per altri sepolcri imbiancati. Non per lui.

La bizzarria della sua figura consiste però nell’impossibilità di trovare una sua inquadratura nell’universo musicale del suo tempo e in quello in genere della Storia della musica. Lui esce da ogni definizione. Uscendo anche dal compartimento stantio del creatore nel solco nietzscheano perché non c’è nulla da creare, avendo dato per assunto che “Dio è morto”.

E in fondo anche quei dei studiati e innalzati al crisma di genialità pura nel corso della Storia della musica servono a ben poco se il loro insegnamento non viene perseguito come pratica vivente.

Parafrasando Zarathustra Emerson pare dire:

“Ma se ci fosse un vero atto creativo puro come potrei non essere un creatore”.

“Ma seguendo la mia opera evidenziano richiami, filiazioni, rimandi e riecheggiamenti, quindi non sussiste nell’opera di Emerson un atto creativo puro”

“Quindi non esistono atti creativi”.

La grandezza di Emerson consiste nel fatto che la sua attività di musicista si impone in una fase storica in cui la tradizione si mostra soppiantata dal già suonato, dal già realizzato, dalla composizione di tutto il possibile per cui si può solo riprodurre.

Certo, fanno grande eccezioni cantori e musicisti del genere pop, blues, folk e rock ma hanno il confine di rappresentare fortemente l’esclusività del loro contesto storico. “Hanno con loro il limite di essere soltanto momento” – avrebbe detto Hegel. E questo non cambia se la loro musica sarà riprodotta negli anni. Ascoltando i Beatles o i Led Zeppeiin l’ascoltatore di vede fortemente proiettato nei tempi che li hanno ispirati. Diversamente da Bach, Mozart, Beethoven che non hanno tempo.

La singolarità – tanto per esser cauti – di Emerson consiste nel fatto di non ascriversi né in una categoria, tantomeno nell’altra. Anche la raffigurazione del personaggio glamour pieno del suo successo epocale fa difetto nella ricerca di una catalogazione. Non ha avuto il bene dei riconoscimenti in vita che invece arrivarono ad altri grandi della sua età come Bob Dylan e Frank Zappa. Ma non se ne prese cruccio più di tanto.

La sua grandezza assoluta consiste piuttosto nella sua volontà di restare dentro alla sua persona e capire l’inconsistenza dell’attuale davanti alla grandezza dell’universo mondo in cui consiste la grande mole di eredità lasciata dai grandissimi suoi predecessori.

Emerson non ha mai avuto la percezione di essere Emerson. Contrariamente alla sua centralità sul palco e la voglia di imporsi nei gruppi in cui suonava ha sempre presentato una modestia indicibile nei confronti di altri protagonisti della scena. Ha sempre rifiutato di accostarsi, anche solo per gioco o per accondiscendere alle lusinghe degli incensatori, a paragoni con tanto di mostri sacri. Sia che fossero viventi o dipartiti e giustamente ricordati.

Se dovessimo ricordare un momento simbolico della sua creazione dovremmo menzionare la stessa disperazione di non poter concepire alcun atto creativo come assoluto. La lotta con l’organo presa da tutti come un gioco da palcoscenico in cui erano diversi a bruciare le chitarre o sbatterle al muro consisteva in questo momento supremo. Chi l’ha vissuto dal palco può testimoniare quanto fosse esaltante a vederla e così fortemente evocativa.

L’altro momento in cui volle avvicinarsi ai grandi assoluti fu nella folle convincimento a voler comporre un piano concerto in età in cui la scena musicale nel mondo produceva il Punk. Emerson non seguiva le tendenze del tempo. Voleva essere invece il tempo. Quello segnato, indicato, martellato con le linee musicali costruite per coloro che volevano e potevano seguirlo.

Oggi tutto questo insieme di ineffabilità non è ancora uscito nella letteratura musicale in modo consapevole e storicizzato. Resta la testimonianza dei suoi dischi, il giocare saltando dal Rock al classico per saggiare spunti blues più ingenuo. E forse è anche giusto così.

Probabilmente Emerson voleva solo divertirsi suonando e balzando tra ispirazioni completamente diverse tra loro. Ma gradualmente fu un gioco che gli prese la mano e da cui non riusciva ad uscirne “mettendo in questa gioco la serietà dei piccoli” (Nietzsche). Ed è facendo lo sforzo di abbassamento delle altisonanti pretese evocative presenti nel fatto musicale che riusciremo ad apprezzare meglio la sua opera.