Ci ha lasciato l’11 marzo nella sua casa a Santa Monica. Si
è sparato un colpo di pistola quando ha capito che la sua vita oramai era
estromessa dalla partecipazione attiva alla costruzione del fatto musicale, al
suo trasmetterlo con altri trovando soluzioni innovative agli armonici nei
quali si avventurava cercando soluzioni nuove.
Ed è la sua fine per le ragioni per cui è data già
meriterebbe di entrare nel mito. Anche se un evento di morte per le sue ragioni
non entra nella celebrazione se autoprodotto. Rappresenta però una formidabile
sintesi per la sua contraddittorietà nella concezione. L’atto creativo, col
quale ebbe sempre un rapporto a dir poco contraddittorio, ha la forza di
sublimare l’esistenza ma la riduce a niente se alcune condizioni fattuali di
vita non consentono di operarlo fattivamente. Ed Emerson per sé non avrebbe
accettato mai di fare il grande vecchio, facendo passerelle, applaudendo per i
suoi brani suonati da altri, intervenendo di tanto in tanto –con l’autorità che
avrebbe meritato – nella valutazione di questo o quell’altro musicista. Ruoli
che sarebbero andati bene per altri sepolcri imbiancati. Non per lui.
La bizzarria della sua figura consiste però nell’impossibilità
di trovare una sua inquadratura nell’universo musicale del suo tempo e in
quello in genere della Storia della musica. Lui esce da ogni definizione.
Uscendo anche dal compartimento stantio del creatore nel solco nietzscheano perché
non c’è nulla da creare, avendo dato per assunto che “Dio è morto”.
E in fondo anche quei dei studiati e innalzati al crisma di
genialità pura nel corso della Storia della musica servono a ben poco se il
loro insegnamento non viene perseguito come pratica vivente.
Parafrasando Zarathustra Emerson pare dire:
“Ma se ci fosse un vero atto creativo puro come potrei non
essere un creatore”.
“Ma seguendo la mia opera evidenziano richiami, filiazioni,
rimandi e riecheggiamenti, quindi non sussiste nell’opera di Emerson un atto
creativo puro”
“Quindi non esistono atti creativi”.
La grandezza di Emerson
consiste nel fatto che la sua attività di musicista si impone in una fase
storica in cui la tradizione si mostra soppiantata dal già suonato, dal già
realizzato, dalla composizione di tutto il possibile per cui si può solo
riprodurre.
Certo, fanno grande eccezioni cantori e musicisti del genere
pop, blues, folk e rock ma hanno il confine di rappresentare fortemente l’esclusività
del loro contesto storico. “Hanno con loro il limite di essere soltanto momento”
– avrebbe detto Hegel. E questo non
cambia se la loro musica sarà riprodotta negli anni. Ascoltando i Beatles o i Led Zeppeiin l’ascoltatore di vede fortemente proiettato nei tempi
che li hanno ispirati. Diversamente da Bach,
Mozart, Beethoven che non hanno tempo.
La singolarità – tanto per esser cauti – di Emerson consiste
nel fatto di non ascriversi né in una categoria, tantomeno nell’altra. Anche la
raffigurazione del personaggio glamour pieno del suo successo epocale fa
difetto nella ricerca di una catalogazione. Non ha avuto il bene dei
riconoscimenti in vita che invece arrivarono ad altri grandi della sua età come
Bob Dylan e Frank Zappa. Ma non se ne prese cruccio più di tanto.
La sua grandezza assoluta consiste piuttosto nella sua
volontà di restare dentro alla sua persona e capire l’inconsistenza dell’attuale
davanti alla grandezza dell’universo mondo in cui consiste la grande mole di
eredità lasciata dai grandissimi suoi predecessori.
Emerson non ha mai avuto la percezione di essere Emerson.
Contrariamente alla sua centralità sul palco e la voglia di imporsi nei gruppi
in cui suonava ha sempre presentato una modestia indicibile nei confronti di
altri protagonisti della scena. Ha sempre rifiutato di accostarsi, anche solo
per gioco o per accondiscendere alle lusinghe degli incensatori, a paragoni con
tanto di mostri sacri. Sia che fossero viventi o dipartiti e giustamente
ricordati.
Se dovessimo ricordare un momento simbolico della sua
creazione dovremmo menzionare la stessa disperazione di non poter concepire
alcun atto creativo come assoluto. La lotta con l’organo presa da tutti come un
gioco da palcoscenico in cui erano diversi a bruciare le chitarre o sbatterle
al muro consisteva in questo momento supremo. Chi l’ha vissuto dal palco può
testimoniare quanto fosse esaltante a vederla e così fortemente evocativa.
L’altro momento in cui volle avvicinarsi ai grandi assoluti
fu nella folle convincimento a voler comporre un piano concerto in età in cui
la scena musicale nel mondo produceva il Punk.
Emerson non seguiva le tendenze del tempo. Voleva essere invece il tempo.
Quello segnato, indicato, martellato con le linee musicali costruite per coloro
che volevano e potevano seguirlo.
Oggi tutto questo insieme di ineffabilità non è ancora
uscito nella letteratura musicale in modo consapevole e storicizzato. Resta la
testimonianza dei suoi dischi, il giocare saltando dal Rock al classico per
saggiare spunti blues più ingenuo. E forse è anche giusto così.
Probabilmente Emerson voleva solo divertirsi suonando e
balzando tra ispirazioni completamente diverse tra loro. Ma gradualmente fu un
gioco che gli prese la mano e da cui non riusciva ad uscirne “mettendo in
questa gioco la serietà dei piccoli” (Nietzsche).
Ed è facendo lo sforzo di abbassamento delle altisonanti pretese evocative
presenti nel fatto musicale che riusciremo ad apprezzare meglio la sua opera.